MILANO – Da poco si è festeggiata la Giornata internazionale del gelato, per festeggiare con il gusto dell’anno olandese (lo yogurt alla fragola), questo dessert freddo. Le belle giornate stanno tornando insieme alla primavera e la voglia di un bel cono artigianale cresce (sebbene si debba resistere per via dell’isolamento forzato). Per riscoprire il sapore del buon gelato artigianale, leggiamo l’intervista a un maestro della materia, Giuseppe Zerbato. Dal sito vicenzatoday.it, l’articolo di Marco Milioni.
Zerbato, artigiano vicentino del gelato
Alla fine le coppe ti fanno piacere, ma quello a cui tengo di più è quando ti apprezzano per il tuo lavoro di ricerca. Questo vale tanto per i giudici di un prix gastronomico quanto per un vecchio cliente che capisce quanto impegno hai profuso in laboratorio». A sottolineare in maniera particolare questo aspetto della sua storia è Giuseppe Zerbato è uno degli artigiani più conosciuti nell’Ovest vicentino.
Ha spiegato che chi è del mestiere chiama «gelataio chi lavora con le buste e usa i prodotti lavorati o semilavorati dell’industria. Mentre chiama gelatiere chi ha un approccio genuino alla professione curando ogni aspetto della produzione cosa che cerco di portare avanti nella mia attività a Valdagno».
Zerbato: in piazza Roma i commercianti e passanti lo conoscono bene
Le sua continua sperimentazione con gli ingredienti gli ha fatto guadagnare l’appellativo, tra gli altri, «di Harry Potter del gelato» e di mago del gelato.
Senta Zerbato ma come diavolo è finito lei, «un gelatiere veneto», in una rivista giapponese? È vero?
«Sì. Di recente ho partecipato ad un concorso internazionale assieme ad alcuni colleghi del Paese del sol levante. Evidentemente i giornalisti nipponici che avevano seguito i loro connazionali si sono accorti della nostra proposta e ne hanno parlato. Mai avrei pensato ad una cosa del genere onestamente».
Quando una persona entra nel suo negozio vede cinque trofei in bella mostra. Come mai?
«È vero li ho messi in alto, ma non sono vanitoso».
Davvero?
«Sì. I premi, quelli sono i più prestigiosi sono importanti, ma sono lì anche per ricordare a me da dove sono venuto».
In che senso?
«Una trentina d’anni fa ho lasciato il mio lavoro come addetto nell’edilizia per dedicarmi alla produzione del gelato. Non devo mai dimenticare che i traguardi raggiunti oltre all’impegno sono stati il frutto di una ricerca costante».
Che tipo di ricerca?
«A mio giudizio uno non può rimanere fossilizzato nella sua bottega. Deve espandere i propri orizzonti. Io l’ho fatto con la curiosità. Ogni ricetta non solo nel mio ambito, ma anche nella pasticceria piuttosto che nella ristorazione per me è uno spunto. Annoto, fotografo, chiacchiero, scambio idee ma soprattutto in questi anni ho imparato ad ascoltare. Sono una persona avida di stimoli».
Tutto qui?
«Non è mica poco. Poi a questo frullatore di idee bisogna dare una forma. A tavolino ragiono, cerco di capire i gusti delle persone, mi confronto con le stagioni e il risultato è quello di proporre sempre alcuni classici affiancandoli ad alcune proposte innovative.
Lei non sa che soddisfazione provo quando mi accorgo che sono riuscito ad accompagnare un cliente che conosco da tempo in un percorso che parte dai gusti già semplici sino a giungere a quelli in cui la ricerca conta tantissimo: basti pensare al gusto al sale che proponiamo da un pezzetto. Sembrerebbe un ossimoro abbinare il gelato al sale ma non lo è. Tra l’altro nel nostro caso il sale non serve a salare il gelato ma a conferirgli un aroma preciso».
Quale è l’obiettivo di un approccio del genere?
Zerbato: «Il gelato chimico, ben fatto o mal fatto che sia, ha un gusto preciso: ti dà una botta e via. Poi rimane indistinto, fugge via: questo appunto per la natura chimica dei suoi ingredienti: i nostri non lo sono. Il nostro obiettivo è quello di ottenere un gioco di sfumature persistenti che in modo gentile e duraturo conquistino il palato».
E quale è invece la base di partenza di un approccio del genere?
«La base di partenza è la scelta della materia prima. Di tanto in tanto e con una certa frequenza mi prendo due tre giorni per andare a conoscere i fornitori e assaggiare il loro prodotto. E così, tanto per dirne alcune, il latte, che è solo di malga, viene dalla provincia di Bolzano, le nocciole, rigorosamente dop, dal Piemonte, i pistacchi, dop pure loro, da Bronte in Sicilia.
In questo momento ci stiamo organizzando per approvvigionarci di cacao al di fuori della filiera delle società legate ai grandi distributori multinazionali. Ora che è possibile vogliamo arrivare ai piccoli produttori e gestire per quanto più possibile la filiera della fava di cacao. L’ambito dell’approvvigionamento poi mi ha insegnato una cosa fondamentale».
Sarebbe a dire?
«Avere a che fare con un certo tipo di fornitore è una esperienza che ti segna. Conoscere la storia di uomini che vivono a centinaia o migliaia di chilometri da casa tua riscoprendo che condividono con te certi lavori ti dà una soddisfazione indescrivibile. È una delle parti più appaganti della mia attività. Con queste persone non porti a compimento una mera transazione commerciale, no. Alla fine porti a casa qualcosa che ti arricchisce dal punto di vista umano. E questo è, almeno in parte, ciò che fa la differenza tra un lavoro ed un mestiere.
Il mestiere porta con sé in modo inscindibile l’aspetto umano. Quello che alla fine della giornata ti dà anche gioia. È vero che seguire una politica del genere ha dei costi. Però non sono insormontabili e alla fine la clientela apprezza ed è disposta a spendere un pelino di più perché sa che cosa mangia e da dove provengono gli ingredienti che in una mondo di cibo standardizzato non è cosa da poco».
Zerbato parla di ricerca. La ricerca però è utile anche a chi propone il prodotto. Basti pensare alle richieste di chi è intollerante, a chi ha problemi di glicemia. O no?
«Senza dubbio sì, ma perché mai dovremmo lasciare nell’angolo chi ha alcuni problemi? Mi sembra corretto, anzi doveroso nei confronti della clientela. Oltretutto non è che i gusti per coloro che sono intolleranti o hanno altri problemi li improvvisi su due piedi. Ti devi documentare, ti devi informare, devi fare in modo che al variare degli ingredienti l’equilibrio che hai col prodotto tradizionale non venga meno».
Perché non è una cosa da poco? Può fare un esempio pratico?
«Pensiamo a chi ha problemi, non gravi per carità, con la glicemia o col diabete. Non tutti sanno che per queste persone il problema non è tanto e non è solo il potere glicemico di un determinato cibo, bensì il suo picco glicemico. Allora tu devi pensare al tuo prodotto non tanto privandolo di zuccheri, non sarebbe più gelato de facto, ma devi preparare le ricette mescolando gli altri ingredienti in modo che gli zuccheri siano rilasciati in modo costante, graduale, bilanciando l’amalgama della ricetta».
E come si ottiene tutto ciò?
«Inevitabilmente occorre avere nozioni di chimica, di biologia, di medicina. Bisogna tenersi informati. Bisogna avere l’umiltà di ascoltare il collega che maturato una esperienza in un dato campo. Bisogna essere aperti al confronto. Bisogna coltivare la propria curiosità. E poi bisogna fare attenzione».
Che tipo di attenzione?
«Diffidate da chi osanna chi lavora solo con le mani. Alla base di ogni lavoro ben fatto, anche manuale, c’è la testa, sempre».
E poi?
«Poi occorre anche organizzarsi. Noi teniamo un data-base degli ingredienti e delle lavorazioni. Sul computer teniamo un diario delle modifiche degli ingredienti. Abbiamo uno storico delle variazioni, grazie al quale riusciamo ad avere una traccia anche delle sfumature. È una cosa fondamentale. Le ragazze che collaborano con me lo sanno bene: hanno mansioni precise. Chi sta in laboratorio non sta dietro il bancone e viceversa: ricerca, lavorazione e vendita sono tre ambiti distinti i quali si raccordano bene solo se a monte le linee sono ben pensate. Il che vale anche se hai un piccolo laboratorio».
Fantasia e organizzazione debbono andare a braccetto?
«Sì, senza dubbio: una non può fare a meno dell’altra».
Ma è vero che dietro il riscaldamento globale c’è la lobby del gelato?
«Non è la prima volta che sento questa battuta, magari la userò in uno spot».