MILANO – Gian Zaniol ha un curriculum molto ricco: prima head barista al Chapter One, locale di cui era socia anche Nora Smahelova, attualmente Lead Barista al Coffee Circle Berlino nonché brand ambassador di due aziende: Manument Coffee e Brita italia. Non dimentichiamo poi il suo successo come campione italiano di brewing 2017. Anche lui ha scelto di far evolvere la sua carriera andando all’estero, in Germania e ora condivide con noi la sua esperienza.
Zaniol, com’è iniziato il suo percorso in questo settore?
“Con il caffè è cominciato tutto 11 anni fa. Lavoro nella gastronomia da quando avevo 14 anni. Mio padre si è sempre occupato di questo e quindi sono un po’ un figlio d’arte. Con il caffè è stato un incontro casuale. Mi sono trasferito a Berlino, senza parlare una parola di tedesco e l’inglese molto male. Ho cercato qualsiasi tipo di lavoro, finché non sono finito in una caffetteria, ignorando totalmente la realtà dello specialty: a casa, Venezia ero il classico barista ignorante. La mia compagna, colpa sua, ha pensato che potesse essere una professione giusta per me, e allora ho portato il mio curriculum e sono stato assunto al Godshot Future coffee Klub. Ho scoperto che il caffè non era quello che pensavo fosse e che molte delle informazioni che assumevo come delle verità assolute, erano opinabili.
La prima spinta è stata quella di capirci qualcosa. C’è voluto un po’ per apprezzare le acidità degli specialty: in Italia avevo quasi smesso di bere caffè in generale sino a quando poi ho scoperto che il problema era la miscela e la qualità, non la bevanda in sé, e la troppa presenza di Robusta. Al Chapter One con Nora, tutto è cambiato: è stata la prima che ha investito su di me, vedendo un potenziale da coltivare. Mi ha costretto lei a fare i campionati. Il caffè filtro non era ancora una specilaità popolare in Italia, c’era molto scetticismo : la sua idea era quella di portare proprio un italiano a confrontarsi con questo metodo di estrazione. La mia prima gara è andata bene, mi sono preparato tanto per 4 mesi e ho avuto due persone competenti che mi hanno seguito Stefano Domatiotis, campione mondiale Brewing 2014 e Nora.”
Quindi non ha seguito dei corsi di formazione?
“Ho imparato tutto sul campo. Per me è stato un poker finire al Chapter One: Nora è giudice Wbc, World Barista chaimpionship e si occupa di controllare gli Ast, fa gli esami per chi diventerà trainer. È uno dei nomi più conosciuti a livello mondiale. Avere lei come mentore, mi ha permesso di formarmi a livello professionale in alternativa ai moduli che giustamente propone Sca. “
Quando Zaniol ha deciso di dover lasciare l’Italia e perché in Germania? Com’è lì la scena dello specialty? E com’è vista la figura del barista? C’è anche lì qualcuno che si improvvisa?
“La mia compagna è tedesca e si era trasferita a Berlino. Abbiamo deciso di incontrarci lì. Dovevo restare un anno e poi sono diventati 12. Ho capito che questo mestiere viene inteso in maniera completamente diversa rispetto anche solo all’Italia, dov’è visto come un ripiego o un lavoretto il più delle volte. La gente arriva appositamente a Berlino per fare il barista, città in cui dovrebbero esserci più di 50 specialty coffee shop. Nell’ambiente ci sono punti di riferimento come The Barn, Bonanza, Five Elephant. La concorrenza è molto alta e quindi qui e soprattutto nel nord Europa, è una realtà piuttosto accesa. Tutti lavorano al meglio e, in questo modo, si innalza la qualità. C’è un senso di comunità anche nel fare business, al di là dell’amicizia.”
Com’è possibile differenziarsi?
“È difficile differenziarsi. Ci sono diversi stili di caffè per diverse tipologie di cliente. The Barn propone acidità spinte, tostature chiare. Noi come Coffee Circle ci rivolgiamo ad un pubblico più ampio, tostiamo un po’ più scuro e non rientriamo magari all’interno della nicchia di super esperti specialty, ma siamo di sicuro l’anello che congiunge il grande pubblico agli specialty. C’è, ovviamente, anche il mercato dedicato proprio all’espresso italiano tradizionale, di cui c’è molta richiesta. Le regole della caffetteria sono seguite ovunque: c’è molta formazione, promossa direttamente dagli stessi datori di lavoro. Si assume un barista, che farà solo quello e che deve saper sostenere grandi volumi, il controllo di qualità e gestire lo stress.
Anche la clientela però ha un approccio diverso: arrivano qui per bere con calma. Vogliono vivere un’esperienza più distesa, e il cliente è contento se attende 5 minuti in più pur di avere il cappuccino perfetto. Per quanto riguarda città come Berlino, Amburgo, Monaco, Francoforte, lo specialty è un trend che spinge molto e fa molto tendenza.
Il cliente ha una consapevolezza diversa, sa che pagherà di più (da noi un espresso singolo costa due euro e 20, ed è ancora poco!) per un prodotto di un certo livello che richiede un determinato tempo per esser preparato. Poi c’è sempre qualcuno che va educato e quella resta la parte più intrigante del nostro mestiere: comunicare con questi clienti, educarli, aiutarli a scegliere, è sempre una soddisfazione. Ed è possibile però farlo perché ho a disposizione più tempo rispetto a quello che c’è nel bar italiano dove si batte solo l’euro al bancone.”
Come Lead Barista Coffee Circle Berlino, di cosa si occupa e come ha visto cambiare la sua professione?
“Abbiamo tre shop. Io mi occupo di quello principale. Gestisco il personale, il mio assistente invece si concentra sui turni di lavoro e degli ordini, mentre io posso focalizzarmi sulla gestione qualità, sul controllo del locale, sul rapporto con i clienti. In sostanza, sono il manager del coffee shop, ma con un occhio molto particolare sul caffè, preparo tutte le ricette, decidendo quale caffè utilizzare e via così e devo gestire 13 fantastici ragazzi.
Questa suddivisione dei compiti aiuta il lavoro interno. In macchina ci sto massimo due giorni alla settimana ed è stata una mia richiesta per non perdere la mano. Ma il resto del tempo lo passo a fare riunioni, meeting, con ogni membro del mio team per cercare di migliorare sempre insieme. Trascorro molto tempo con il personale e poi anche con i clienti. Dietro di me ho delle persone a cui delego specifiche task giornaliere e settimanali: così la macchina caffetteria va avanti da sola. Per quello è necessario contare su una strutturazione delle risorse. Ognuno ha la sua mansione ben definita con i rispettivi stipendi.”
A proposito di paga: è così differente dall’Italia per un professionista formato?
“Da quello che so, rispetto ai colleghi è differente. La formazione qui è necessaria e quindi è ben pagata. Io non posso assumere qualcuno a caso e metterlo subito alla macchina. Ho bisogno di una risorsa che sia in grado di muoversi con la macchina come dico io. Gli anni di formazione sono il biglietto da visita per garantire costanza e qualità: di conseguenza lo stipendio sarà diverso.”
Lì c’è mancanza di personale?
“Faccio fatica a trovare solo personale di sala. Ma al momento i baristi e le persone che sono in grado di esser maitre, ci sono. Non ho riscontrato una grande carenza. Io ho la fortuna di lavorare per una compagnia etica e sostenibile e abbiamo delle buone paghe in partenza, così attraiamo anche personale da altre aziende. C’è ancora generalmente poca considerazione da parte dei ragazzi rispetto a questa professione, perché non credono che si possa guadagnare da questo tipo di lavoro. Quando inizio con i training alle nuove leve, cerco sempre di far arrivare subito allo step successivo, per diventare professionisti veri al di là della gestualità di base.”
Come avete reagito come fuori casa alla pandemia a Berlino?
Gian Zaniol:“Qua è stata pesante perché il primo lockdown ho visto chiudere molti posti così come aprirne di nuovi. La vera fortuna qui è stata che come caffetteria, non rientravamo più nella categoria della gastronomia ma in quella della vendita di beni di prima necessità. Quindi abbiamo avuto la possibilità di stare aperti ma solo per take away.
Il tedesco medio ha la cultura del take away. Metà delle bevande che preparavo andavano in take away, quindi è stato possibile sopravvivere indenni alla prima ondata. Le persone tornano a consumare fuori casa. Qua non solo ci vogliono il supergreen pass ma anche la carta d’identità. È fastidioso anche per noi, ma dobbiamo rispettare le regole: i controlli insomma non mancano, ma la gente continua a venire in ogni caso. I numeri sono positivi, la voglia di buon caffè non manca. Siamo molto fiduciosi per la bella stagione e tornare ai volumi di due e tre anni fa. Già siamo sulla buona strada: il nostro locale è sempre pieno.”
Com’è visto lì l’espresso?
“L’espresso è visto bene. È quello che vendo di più in assoluto, anche qui dove il filtro è tradizionale. Ricordo che il V60, è tedesco, chi ha creato il chemex è tedesco, i primi filtri in carta sono Melita che è tedesca e via dicendo. Quando l’espresso ha iniziato a espandersi soprattutto grazie agli specialty è stato vero amore, resta il king del caffè. Mi spiego meglio: solo dal 1989 la cultura del caffè, con la caduta del muro e la riunione della Germania e la ripartenza, ha cominciato a espandersi. Prima il caffè espresso non c’era e a est era molto difficile da reperire in ogni caso.
Poi è arrivata la Third Wave, con la sua diversa filosofia di servire il caffè, si è diffusa la possibilità di bere espresso anche al di fuori dei bar propriamente italiani. I nuovi caffè hanno preso piede in una nazione dove non c’era una tradizione forte della tazzina: quando sono arrivati gli specialty, hanno accolto questa filosofia con una mentalità molto aperta. Ed è il motivo per cui hanno aperto molte caffetterie a Berlino.”
E per quanto riguarda l’Unesco, Zaniol lei cosa ne pensa?
“Senza l’espresso italiano nessuno di noi sarebbe dov’è adesso. In Italia non è solo una bevanda, ma un culto, una maniera di vivere il caffè e il bar, che poi abbiamo fatto conoscere a tutto il mondo. La tradizione in quanto tale va tutelata. Discorso diverso si dovrebbe fare per la sostenibilità, sembra che molti abbiamo scoperto solo ora che la grande produzione non è sostenibile, e la qualità. Quindi perché vedere come un male questo riconoscimento? È un modo per sancire l’amore dell’Italia per il caffè.”
Ma da voi che caffè si serve?
“Noi abbiamo un’offerta di 22 caffè diversi tra single orign e blend, metà per filtro e metà per espresso. Ne abbiamo uno fisso in tutti quanti i locali, un brasiliano naturale Cerrado. Il secondo viene cambiato ogni due mesi. I caffè sono tutti direct trade. Nasciamo come e-shop e poi siamo diventati store offline. Abbiamo anche caffè tostati scuro con Robusta, nella direzione italiana. Partono da materie prime di qualità: un 60%40 un 75% 25% e un 100% arabica, senza note amare, verso la cioccolata, blue berry, perchè negare a chi ama il caffè tradizionale un prodotto di alta qualità?
Zaniol, ha in mente di tornare in Italia?
“Ogni tanto mi faccio questa domanda e la risposta brutale è: se potessi prendere la stessa cifra che guadagno qui in Germania, potrei pensarci. Ma al momento quello che riesco a fare qua, è lontano in Italia. È tutto legato alla percezione del grande pubblico. Ci sono le caffetterie specialty che richiamano l’attenzione, ma per fare i numeri che faccio qui, senza servire alcol, la strada è lunga. Però mi piacerebbe.”
Ha progetti in cantiere?
“Oltre a Coffee Circle al momento sono concentrato sul progetto Monument. Abbiamo prodotto una gran bella macchina che ora vogliamo mostrare. C’è sempre l’idea di tornare a competere anche come coach, ma l’obiettivo è quello di riuscire ad aprire una piccola caffetteria. Qui è più semplice avviare un’attività, dal punto di vista burocratico e anche economico. Ancora oggi con un budget limitato si può fare in un mese.”
Zaniol chiude per i ragazzi: “Rimanete umili e lavorate sodo. Provate a vedere com’è la situazione in un altro paese e a confrontarvi con culture diverse. Ora con il mio team, mi sento benedetto, perché copriamo nove diverse nazionalità, con un solo tedesco (è capitato!). È interessante capire i modi di rapportarsi con il mondo e con la bevanda, nel confronto costruttivo con altri paesi e background. Il nostro campione Daniele Ricci è l’esempio da seguire: è andato prima in Olanda, ora è in Svizzera, non vuole smettere di imparare e confrontarsi con altre realtà.”