Il presidente del secondo torrefattore in Italia, ottavo al mondo: dalla Cina a Dubai il segreto è adattarsi ai gusti locali. Giro d’affari di un miliardo all’anno, per il 70% export (gli Usa primo mercato). Segafredo-Zanetti ha 500 boutique del caffè sparse in tutto il mondo. Nella foto la caffetteria di Hong Kong
di ELEONORA VALLIN
È il caffè di Barack Obama: fornitore ufficiale della Casa Bianca ma anche della Real Casa d’Olanda. La miscela della federazione italiana calcio e di tutto lo sport nazionale grazie al nuovo contratto triennale con il Coni. E, dopo Sochi, è già pronto per essere gustato alle prossime Olimpiadi di Rio de Janeiro. Segafredo Zanetti è l’espresso italiano nel mondo, pronto alla quotazione in Borsa.
«Un’operazione che stiamo valutando attentamente, a patto di mantenere la maggioranza – ha anticipato in un’intervista al settimanale de La Stampa Tottosoldi, il presidente della Holding, Massimo Zanetti – per una questione di continuità aziendale e per dare un futuro solido e pubblico a quanto ho creato in tutti questi anni. Oltre a un maggior apporto di capitali».
Con un miliardo di fatturato consolidato nel 2013 e dieci milioni di utile, il Gruppo – che conta 14 stabilimenti produttivi in tutto il mondo e oltre 2.700 dipendenti – ha ormai raggiunto quota 70% di export, con primo mercato gli Stati Uniti d’America.
La storia fonda le sue radici agli inizi del ‘900: Zanetti nasce da una famiglia di mercanti di caffè e spezie. Prima il nonno Demetrio, poi il padre Virgilio. Negli anni Settanta il passaggio dal «crudo al cotto», con l’acquisto della torrefazione bolognese Segafredo, proseguita con l’espansione oltre confine. Nel 1995 l’imprenditore trevigiano rileva i 2mila ettari di Nossa Sehhora da Guia, prima piantagione di caffè privata a corpo unico al mondo in Brasile a cui, nel tempo, vengono affiancati altri 1.500 ettari alle Hawaii. Il business della Massimo Zanetti Beverage Group si completa, infine, con la produzione di macchine da caffè, le cialde e una rete di 500 boutique in tutto il mondo. Da gennaio 2014, dopo le ultime tappe di Tokyo, Dubai, Giordania e Kuwait, Segrafredo è entrato anche in Cina.
Non dev’essere semplice vendere l’espresso italiano in Oriente…
«Per nulla: i cinesi continuano a prediligere il tè. Ma il caffè è un prodotto ciclico: quando un Paese è povero i suoi consumi sono bassissimi; più cresce e si arricchisce, più bere caffè, per i suoi cittadini, diventa un lusso».
E’ anche questione di liturgia: lei esporta un pezzo di cultura italiana.
«Non proprio: il caffè è un consumo storico di tradizione e non si può stravolgere un Paese straniero. Se porti la cultura italiana all’estero spesso perdi, ma se segui i gusti locali vinci. L’espresso è, e resterà, una nicchia, seppur in continua crescita. Ma il 70% del mercato oggi lo fa il caffè-filtro che è quello americano. Per fare un buon espresso, serve un bravo barista e fuori Italia nessuno sa usare bene le macchine da bar. E’ una questione di acqua, macinatura, dosi, umidità…».
L’ultimo acquisto è una società in Nuova Zelanda. Prossimo obiettivo?
«Abbiamo siglato a febbraio un accordo per rilevare le attività di EspressoWorkz, società con sede ad Auckland che commercializza caffè e macchine da caffè in tutta la Nuova Zelanda. La nostra regola è che: se dobbiamo lavorare in un Paese dove non siamo ancora presenti, meglio acquistare una società in loco e poi portarci l’espresso Segafredo. Abbiamo appena aperto anche uno stabilimento in Vietnam e siamo in trattativa per nuove acquisizioni in Asia che non è un mercato facile perché sul caffè si paga una tassa del 70%, quindi meglio produrlo lì. Purtroppo, non per nostra volontà, abbiamo dovuto interrompere una trattativa per un nostro ingresso in Ucraina con un impianto di produzione di caffè solubile e liofilizzato. Qui al momento è tutto fermo. Vediamo come si evolve la situazione».
Quote di mercato, in Italia e all’estero?
«Siamo leader nel canale “Fuori Casa” con posizioni prevalenti anche nei consumi “In Casa” e un ampio assortimento di prodotti coloniali di qualità. I principali mercati sono: Francia, Olanda, Polonia, Finlandia, con un buon presidio in Italia dove la clientela, diversamente dall’estero, è molto più fedele alla marca. E, nel caffè, lo dicono le indagini, si cambia molto difficilmente. Il mercato maggiore resta però l’America dove siamo la terza azienda del caffè dopo Folgers e Kraft. E agli americani dobbiamo molto: sono stati loro a portare il caffè nel mondo. Tutto risale alla protesta dei coloni contro il governo britannico, quando distrussero molte ceste di tè. Quella del porto di Boston fu la scintilla della rivoluzione americana. Ma da allora il mondo si divise in due: chi iniziò a bere caffè e chi continuò a bere tè».
Quand’è nata l’idea delle boutique del caffè?
«La prima risale al 1985 a Rouen in Francia. Volevo portare in giro nel mondo l’esperienza del Florian di Venezia. Da lì partì la prima catena di 40 caffetterie, la seconda all’Opera di Parigi che incuriosirono molto Howard D. Schultz, meglio noto come Mr. Starbucks. Mi venne a trovare un giorno perché era stato a Rouen e voleva vedere lo stabilimento di torrefazione a Bologna. Al suo ritorno in America aprì i primi coffee Starbucks».
L’Italia ha sempre idee geniali ma il business lo fanno gli stranieri. Come mai?
«Il problema sono i soldi, lo sono sempre stati. Io non posso combattere contro Nestlè e Starbucks è un successo di Borsa e dei capitali messi dalle banche americane».
Quali sono le sue ragioni per continuare a fare impresa in Italia?
«Io sono italiano e ho girato tutto il mondo. Ogni paese ha i suoi problemi e nessuno ha in mano le soluzioni a tutti i mali dell’economia. Ma nel vivere, vestire e mangiare… meglio di noi non c’è nessuno. Il problema dell’Italia sono le tasse ma tutti dimenticano che il grosso deficit è nato per far crescere il paese e far star bene gli italiani. Oggi ci lamentiamo tutti ma non sono lontani i tempi in cui andavamo in giro in bicicletta».
I suoi figli sono già in azienda?
«Si, sia Laura sia Matteo – che rappresentano la quarta generazione – sono operativi con ruoli diversi nella Holding. Se fosse per me lavorerei fino a 90 anni perché mi diverto, ma oltre a loro, ho un management forte e preparato e una volta chiusi un paio di affari che ho in ballo, potrei anche andarmene in pensione. Il mio sogno l’ho raggiunto: ho coperto tutto il mondo».