domenica 22 Dicembre 2024
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Jeon, Coffee Pro: “I coreani innamorati di Dalla Corte e anche del caffè napoletano”

Il Coffee Pro Dalla Corte: "Vorrei che i titolari delle torrefazioni si confrontassero con me per migliorare e comprendere il mercato asiatico. Potrei condividere la mia esperienza. Perché voglio vedere gli italiani essere i migliori. Sono innamorato dell’Italia, sono un barista, ed è questo che mi delude di più: qualcosa sta già cambiando in positivo, ma avviene tutto molto lentamente. Sono stufo di sentire dire “questo caffè italiano fa schifo”

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MILANO – Yong Jeon è Coffee Pro Dalla Corte, in tanti lo conoscono come Johnny, nome che lui ha scelto perché ricorda il suono del suo cognome Jeon, mentre il suo nome è Yong che in coreano significa drago: questa è la sua prima presentazione al telefono quando lo abbiamo raggiunto per parlare della sua indiscussa esperienza nel settore e in particolare della sua visione del mondo dell’espresso, da una prospettiva esterna in quanto coreano e allo stesso tempo molto legata all’amore per l’Italia, la sua cultura e l’eccellenza made in Italy ben espressa dall’azienda per cui lavora.

Jeon, ci racconti come un coreano finisce in Italia ad insegnare ai baristi italiani ad usare le macchine italiane Dalla Corte per fare l’espresso italiano tradizionale e tutte le bevande a base espresso.

“Capisco la perplessità che può scaturire a leggere la mia storia. Potrei fare un paragone con un piatto tipico coreano molto famoso, il Kimchi: tutti noi coreani quando andiamo all’estero ne sentiamo tanto la mancanza, è un po’ come l’espresso per gli italiani. Non riusciamo mai a trovarne uno che sia autentico fuori dalla Corea. Effettivamente, se qualcuno arrivasse da un altro Paese in Corea e ci insegnasse a preparare questa nostra ricetta, penseremmo che è una barzelletta.

Ma io ormai lavoro nel settore del caffè da 22 anni. Fortunatamente in questo mio percorso, sono stato influenzato e guidato dai maestri italiani. Com’è successo? Dobbiamo tornare a venticinque anni fa, quando dello specialty coffee si parlava ancora pochissimo. Starbucks è arrivato in Corea solo nel 1999, con l’apertura del primo store della catena. Per quanto riguarda il mercato dei coffee shop, oggi la Corea è il terzo più grande al mondo, la Cina è il secondo, l’America è il primo, per cui sul territorio ci sono ormai tantissime caffetterie. Ma 20 anni fa la situazione era ben diversa: i cinesi non sapevano niente di caffè, tanto meno di espresso.

Ho avuto il piacere di conoscere nel 2002 in Corea i fondatori di Csc (Caffè speciali certificati), Enrico Meschini e Paolo Milani de Le Piantagioni del caffè, perché l’azienda per cui lavoravo ai tempi importava il caffè dall’Italia. Quella è stata l’occasione per me di imparare l’espresso da questi due esperti.

Un’altra opportunità si è verificata nel 2003, quando ho incontrato per la prima volta Paolo e Bruno Dalla Corte ad una fiera in cui hanno svelato la macchina Evolution: durante l’evento ho avuto modo di utilizzarla per la prima volta in Corea. Potrei dire quindi che, da una parte, ho imparato a gustare il caffè grazie ai prodotti de Le Piantagioni di caffè, mentre dall’altra sono cresciuto con la tecnologia Dalla Corte.”

Jeon: “Mi sento di affermare che sono coreano, ma fondamentalmente ho imparato il caffè dall’Italia”

“Dal 2005 al 2013, ho insegnato a tantissimi baristi coreani in Corea. Nel 2005 sono stato un concorrente al WBC nella categoria barista: in quel periodo, contavamo solo 10 accademie per i training center in tutta la Corea. Ora, ce ne sono almeno 1000 mille in più: due milioni di persone hanno certificazioni baristi. Ormai anche la casalinga è un barista. Questo è un buon segno da una parte, perché significa che i coreani vogliono imparare a fare il caffè. Ma dall’altra, il problema è che alcuni studenti che hanno imparato da me, dopo si sono messi a fare loro da formatori: con poca esperienza alle spalle, hanno comunque insegnato ad altri.

Sulla carta, potremmo risultare il migliore paese del mondo per quanto riguarda il caffè, perché sono tutti operatori certificati, ma nella pratica è un po’ diverso. E bisogna entrare più in profondità nella cultura coreana, che è sempre molto attenta a seguire il più possibile i nuovi trend. Abbiamo subito molto l’influenza di Starbucks.

Facciamo un passo indietro e pensiamo a chi guida il mondo del caffè oggi: gli australiani, gli inglesi, i nord europei e gli americani: tantissimi in questi Paesi purtroppo non rispettano il caffè italiano, e non ne hanno una grande considerazione. Dal 2005 in poi, molti sono diventati dei professionisti grazie al mio lavoro, ma io non sono contento proprio per questo scarso rispetto della cultura italiana. Dieci anni fa, tantissimi specialty coffee shop hanno proposto l’espresso ristretto ma solo perché era la tendenza dell’epoca.

Parlo della mia esperienza sul campo: dal 2009 al 2013, quando sono stato direttore della catena Coco Bruni, controllavo 23 negozi. I miei baristi, hanno imparato da me: il primo mese, per 8 ore al giorno, tutti i baristi dovevano seguire un corso di formazione. E ancora non lavoravano dietro al bancone da soli, ma hanno affiancato per due mesi l’head barista. Tornati nel mio ufficio, dovevano superare un test da me preparato seguendo l’esempio delle gare Wbc. Se lo superavano, potevano preparare il caffè per 2 ore al giorno, dopo 3 mesi arrivavano a coprire 8 ore di turno. Dopo 6 mesi diventavano un barista dotato degli
strumenti base.

Adesso si parla di specialty troppo facilmente, quando i baristi cominciano a preparare l’espresso dopo appena 5 giorni di formazione. È necessario invece investire tempo, passione, dedizione per ottenere il caffè migliore. Nel 2009 nel mio negozio abbiamo usato 4 macinini: con un caffè de Le Piantagioni di caffè, a 35 euro al chilo. Eravamo già avanti, ma nonostante questo, per i miei baristi era più importante cavalcare il trend che concentrarsi sulla formazione. Faccio un esempio: a nostra ricetta voleva 15grammi per il double shot mentre loro volevano usarne 20, perché sembrava più di moda.

Per una catena, è difficile mantenere coerente la qualità e l’unico modo per farlo sarebbe quello di formare una squadra competente: nonostante tutti i miei sforzi, la moda australiana e nord europea degli specialty, ha influenzato il nostro modo di lavorare e di consumare, prediligendo le ricette come il caffè americano e il caffellatte.

L’espresso è nato in Italia, ma purtroppo negli altri Paesi questa cosa non è valorizzata. E se non è percepito il suo vero valore è perché gli stessi italiani sono i primi a non comprenderlo. Per questo spesso mi arrabbio anche con loro. In Dalla Corte l’orgoglio si sente fortissimo e ho sentito spesso dire che gli italiani non capiscono. Quando
hanno inventato la tecnologia a gruppi indipendenti in grado di controllare con estrema precisione la temperatura, ricordo che i nostri concorrenti hanno sorriso: in seguito, passati gli anni, il mondo è cambiato seguendo lo specialty e le evoluzioni tecnologiche che hanno favorito anche la diffusione di informazioni hanno reso chiaro per tutti che i gruppi indipendenti erano la svolta, comprese le aziende che avevano sorriso in precedenza.

È vero anche che all’estero accettano più velocemente i cambiamenti. Invece i clienti italiani sono rimasti fermi agli anni ’90. Vorrei chiedere loro che cosa significa tradizione? Perché Le Piantagioni del caffè hanno già 130 anni, e per me rappresentano una tradizione pur essendo spinti dall’innovazione. La mentalità vecchia invece è un’altra cosa, quella che resta ancorata ai vecchi schemi.”

In Corea com’è visto vissuto e bevuto l’espresso?

“Contiamo tantissimi bar, ma purtroppo ancora beviamo caffè americano e caffellatte. Una cosa che è accaduta di recente però è interessante: dopo la pandemia, un ragazzo Lee Sar, ha aperto un locale in stile italiano, con la macchina del caffè a leva come si usa al sud Italia. Qui si beve al bancone l’espresso. Questo ha creato un nuovo trend: noi coreani siamo un po’ modaioli, la seguiamo velocemente. Gli specialty coffee shop vicini allo stile australiano è ormai un mercato saturo e molto esplorato in Corea. Questo modo
italiano veloce, invece è una novità: ora sono in tanti che adottano questa modalità, servendo al banco la tazzina di espresso, anche con panna. È un trend un po’ vintage.

Avevo provato anch’io 12 anni fa ad aprire uno standing bar, ma non aveva funzionato all’epoca. In Corea abbiamo bisogno di esser coinvolti da una cultura, da un movimento, non solo da uno store isolato.”

Jeon, come vanno le macchine Dalla Corte?

“Ci sono molti baristi che usano i modelli Dalla Corte in Corea. Fino alla metà degli anni 2000, la Dalla Corte era una macchina stupenda ed avveniristica, quasi futuristica: tanti sognavano di averne una, la volevano usare nei loro locali. Fino a quando nel 2008, dopo aver venduto tante macchine in franchising, il trend è cambiato: Dalla Corte veniva usata nel WLAC & WCIGS, quando non esisteva la tecnologia che c’è adesso.

Oggi molti concorrenti hanno cavalcato la strada dell’innovazione. Per Dalla Corte la Corea resta in ogni caso il primo mercato. Perché? Perché al contrario dell’Italia dove funziona ancora la formula del comodato d’uso, Dalla Corte ha oltre 1000 accademie in Corea: noi vogliamo imparare prima a preparare il caffè e solo dopo che siamo formati pensiamo alla macchina da usare.”

Adesso che c’è carenza di personale formato e i bar sono alla ricerca disperata, avrà il suo bel da fare

“E’ un po’ un problema complicato. Penso che il mercato diventerà sempre più polarizzato: da una parte ci saranno i negozi orientati alla qualità con professionisti che lavorano al loro interno e le caffetterie che non lo sono. È un fenomeno globale: ogni anno andavo in Giappone e aveva questo problema già 15 anni fa, e per risolverlo avevano deciso di usare i distributori automatici.

Il mio ex allievo che voleva imparare il caffè filtro, che in Giappone un mercato molto sviluppato, e anche come preparare l’espresso. Ma lì è difficilissimo trovare un bar con una macchina semiautomatiche: loro ormai usano le vending machine, proprio perché manca il personale formato. Nel 2003 in Corea, Starbucks aveva La Marzocco, ma poi hanno cambiato con una full automatica, perché non erano in grado di gestire la costanza della qualità.

In Italia non finirà così, perché secondo il mio punto di vista coreano, niente è cambiato in questo settore negli ultimi 20 anni. È difficilissimo trovare al bar una tazza bevibile. Non si usa un buon prodotto, neppure per preparare il cappuccino. Ho scoperto che c’è comunque speranza in prospettiva: Giuseppe Fiorini, Matteo Beluffi, Manuela Fensore e Chiara Bergonzi sono delle eccellenze che fanno formazione. Le possibilità ci sono per la latte art, ma non tutti raggiungono il livello dei caffè artigianali e specialty: ci sono
in Italia, così come i top commerciali, ma manca l’alternativa media che si posizioni tra i due livelli. C’è il caffè buonissimo e poi quello schifoso. “

Jeon: “Mi piace molto la cultura napoletana del caffè, ma è una cosa diversa”

“Non deve esser inteso come frutto della tecnologia, ma come espressione di una cultura. Molti preferiscono lo specialty per la sua qualità, ma il caffè napoletano ha uno spirito differente: è crema spessa, tostatura molto scura, un gusto richiama un certo tipo di tradizione. Quando incontro gli esperti di caffè italiani, loro parlano sempre male del caffè napoletano. Ma perché? Hanno mai visitato Napoli? Spesso la risposta è no. Io che ho girato per quasi tutte le regioni in Italia, nel 2013 l’ho percorsa tutta in moto lasciando la Corea dove la tazzina non era rispettata e dopo aver bevuto per 20 anni specialty coffee in Corea, tostato chiaro, continuo ancora oggi a dire che lo specialty non è vero espresso.

È un’altra bevanda, quella alla nord europea. Persino la latte art l’ha inventata un italiano, Luigi Lupi. Insomma, ci sono le eccellenze, ma gli italiani non primeggiano perché litigano, non fanno rete, e al bar devono pagare sempre un euro la tazzina. Nello stesso Bar Affori di Milano, cliente di Dalla Corte, continuavo ad andare ancor prima che passassero
agli specialty e utilizzassero un caffè di scarsa qualità. Li ho frequentati, ho insegnato loro dopo il lavoro, gratuitamente: volevo vedere i miei amici italiani crescere, ed esser orgogliosi della cultura italiana.”

La figura del trainer si è evoluta negli ultimi anni? È uguale in Italia come nel resto dell’Europa e nel mondo?

“Sta migliorando e questo perché la nuova generazione visita gli altri Paesi e anche Starbucks è arrivato sin qui. Tra social e globalizzazione, i giovani hanno sperimentato un altro modo di preparare e di consumare il caffè. Per esempio a Brescia c’è una piccola caffetteria, Cioè, che è diventato bravissimo: va a Dubai per insegnare agli altri. I giovani riescono a comprendere le novità, per cui anche il settore della torrefazione dovrà cambiare mentalità e smettere di vendere caffè di scarsa qualità. Rubens Gardelli è diventato
campione del mondo di roasting, ma gli italiani non vogliono ancora comprare il suo caffè, perché troppo costoso. È un peccato. C’è bisogno di comunicare diversamente.

Io per esempio, che ho insegnato tango argentino (ballo meglio di come preparo il caffè), ogni tanto partecipo a un evento e porto con me una macchina a un gruppo Dalla Corte, con lo specialty coffee per condividere il caffè con 250 ballerini, anche dall’estero, per tre giorni, gratuitamente. La reazione è stata di entusiasmo: sono diventati tutti appassionati. Propongo 3 monorigini e una miscela: spiego le origini, la lavorazione, la tostatura, la varietà, i sentori in tazza. Perché voglio diffondere la cultura del caffè che non è il pacco al supermercato o l’espresso a un euro del marchio famoso.”

Mentre il ruolo del barista? Trova che sia più valorizzata o c’è ancora molto da fare?

“È valorizzata un po’ di più, ma c’è ancora tanta strada da fare. A Milano le caffetterie specialty lavorano molto bene, ma la loro clientela è prevalentemente straniera. Ancora tanti bar non fanno lo stesso lavoro di racconto e di innalzamento della qualità, ma anche perché i ritmi sono talmente serrati che non è neppure fattibile. Non si può semplicemente dire al barista che deve cambiare, ma lo si deve coinvolgere in un movimento culturale più ampio: comunicare in tv, in radio, e gli stessi grandi marchi dovrebbero farsi portavoce di questo cambiamento. Devono aprire più locali che spingono sulla qualità.

Perché non succede? Perché i clienti sono già abituati a quel prezzo di un euro, e va bene metterci lo zucchero. Le associazioni che fanno? Le aziende che cosa fanno? Io posso cambiare i miei amici, chi mi sta vicino come ho fatto nel bar Affori, dove hanno raccolto la sfida che ho lanciato loro, ma non è sufficiente. Lo voglio dire: come coreano non rispetto le stelle Michelin, perché, se veramente si è il migliore chef del mondo, deve curare il dolce, deve servire il miglior caffè. Perché in 5 secondi possono rovinare l’esperienza totale del pasto.”

Jeon, lo stesso vale per lo specialty? È cresciuta la scena in Italia? Lei ha riscontrato un aumento nella richiesta di formazione tra i baristi su questi prodotti?

“Ho capito che la strada non è completamente chiusa: anche gli italiani possono cambiare mentalità, così come è successo per il vino negli anni passati. I clienti hanno innanzitutto bisogno di fare un’esperienza e per questo servono baristi che siano interessati alla formazione. Molti specialty coffee shop hanno sbagliato perché hanno voluto seguire la moda australiana. Solo ora questo sta cambiando: perché ci sono italiani che vendono specialty coffee non troppo acidi, offrendo diverse alternative per andare incontro ai
gusti italiani. Bisogna trovare prima una via di mezzo. Le caffetterie specialty non devono fraintendere: gli specialty esistono, ma non sono un trend da adottare passivamente nello stile nord europeo. Bisogna usare un caffè di qualità alta, ma per espresso, non dev’esser tostato troppo chiaro, ma medio.

Qui non si apprezza il gusto australiano. Si inizia così, con una via di mezzo e poi pian piano, li si avvicina ad altri gusti.”

Le macchine Dalla Corte come hanno risposto e come risponderanno alle esigenze dei baristi dal punto di vista delle performance?

“La filosofia di Dalla Corte è “make it better”: sosteniamo sempre la passione dei baristi e li ascoltiamo per dar loro il giusto supporto. C’è stato un momento nel mercato coreano, in cui Dalla Corte ha introdotto il portafiltro da 54,5 centimetri di diametro, quando solitamente si usa quello da 58, per migliorare l’estrazione e bloccare il channeling). Volevo convincere Paolo Dalla Corte a tornare ai 58, perché non è stato apprezzato dagli operatori, ma non ha voluto. Perché? Perché come famiglia hanno guidato questa industria, inventando per esempio la tecnologia de La Spaziale, la prima caldaia indipendente brevettata.

Abbiamo quindi creato una macchina che dia più possibilità ai baristi, che offra sia il portafiltro da 54,5 che quello da 58: abbiamo ascoltato le opinioni degli operatori, e abbiamo voluto rispettare le loro esigenze. Questo è il nostro modus operandi anche all’estero.

Un altro esempio è stato quando con la nostra macchina hero, La Mina, già nel 2015 abbiamo creato il primo modello con il controllo del flusso libero. Questa tecnologia non andava bene perché era troppo presto per proporla. Abbiamo parlato con baristi ed esperti e ora, loro ci danno tanta fiducia e feedback per lavorare su determinati aspetti come il flusso dell’acqua, e per quanto riguarda invece le prossime novità, il resto…è top secret.”

Jeon condivide un’ulteriore riflessione piuttosto personale

“Per me non è facile lavorare in Italia, perché sono coreano e non ho una padronanza della lingua sufficiente per esprimermi al meglio. Io rispecchio lo spirito della Corea, Paese che è innamorato della cultura napoletana, con macchina a leva e Robusta, ma anche dello specialty: rispettiamo quindi sia la tradizione che l’innovazione. Vorrei che i titolari delle torrefazioni si confrontassero con me per migliorare e comprendere il mercato asiatico. Potrei condividere la mia esperienza. Perché voglio vedere gli italiani essere i migliori. Sono innamorato dell’Italia, sono un barista, ed è questo che mi delude di più: qualcosa sta
già cambiando in positivo, ma avviene tutto molto lentamente. Sono stufo di sentire dire “questo caffè italiano fa schifo”.

L’espresso che è apprezzato in tutto il mondo nasce dalla passione italiana: quella dell’ingegnere, quella dei torrefattori e del barista. Questa è cultura. Questa è tradizione. Questa è l’Italia stessa. Spero che questo bel Paese si riappropri presto della sua cultura perduta, per non smarrire l’entusiasmo delle precedenti generazioni.”

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