CIMBALI M2
giovedì 21 Novembre 2024
  • CIMBALI M2

Wecoffeeclub mette sullo stesso piano specialty e mixology: il bartender non ha più bisogno di scuse

Due giornate di talk e masterclass dove lo specialty è entrato nel mondo del bartending, sono diventate l'occasione di confrontarsi tra addetti ai lavori, seppure da settori apparentemente distanti come la distillazione e la caffetteria

Da leggere

  • Dalla Corte
TME Cialdy Evo
Demus Lab - Analisi, R&S, consulenza e formazione sul caffè

MILANO – La notizia era già nota: Wecoffeeclub si è svolto secondo i piani. Il primo evento italiano in cui caffè e mixology camminano paralleli, è stato il riflesso della pluriennale esperienza di Rita Cocktails e Rita’s Tiki Room – i due cocktail bar milanesi fondati da Edoardo Nono e Chiara Buzzi – e delle competenze di Gianni Tratzi (Mezzatazza Consulting).

Due giornate di talk e masterclass dove lo specialty è entrato nel mondo del bartending, sono diventate l’occasione di confrontarsi tra addetti ai lavori, seppure da settori apparentemente distanti come la distillazione e la caffetteria.

Si sottolinea l’apparentemente, perché in realtà il binomio caffè-drink esiste da tantissimo tempo nei bar italiani e non, ma ora è arrivato il momento di valorizzare questa unione con una scelta di metodi di estrazione e materia prima più selezionata.

Un esempio concreto è stato portato nel doppio intervento tenuto da Andrea Pomo, Brand Ambassador di Santa Teresa 1796 in Italia che insieme ad Edoardo Nono, founder Gruppo Rita Coffee and distillation e al team del Rita Tiki’s bar, si sono alternati per raccontare un progetto racchiuso in una sola bottiglia, ovvero quella del Santa Teresa Arabica Coffee Cask Finish.

Andrea Pomo in primo piano e dietro Edoardo Nono

L’ultima opera d’arte si potrebbe quasi dire, della terza attività commerciale esistita in Venezuela con 228 anni alle spalle, da 5 generazioni a conduzione familiare e specializzata nel rum e nel caffè.

Come si può creare una commistione di questo genere?

Il processo non è certo dei più scontati come spesso accade quando si realizzano distillati con il caffè. Santa Teresa ha scelto di distinguersi puntando su una preparazione più complessa in termini di tecnica, ma più semplice nell’uso degli ingredienti.

Realizzato con chicchi di arabica coltivata biologicamente, tostatura media e macinatura sotto la guida dei maestri distillatori del marchio nell’Hacienda Santa Teresa, si ottiene il primo rum venezuelano affinato in botti di caffè.

Tutto inizia con la selezione del verde, poi messo ad infusione a freddo, cold brew – metodo scelto in quanto maggiormente conserva le caratteristiche di morbidezza, di complessità aromatica e armonia necessaria per un distillato che sia perfetto nel bicchiere – con rum invecchiato 4 anni.

Questa miscela viene conservata in botti di quercia bianca americana selezionate e qui matura per sei mesi, insaporendosi delle stesse note di caffè.

Il cold brew viene quindi estratto, e il Santa Teresa 1796, dopo aver completato il processo di tripla maturazione attraverso il metodo Solera, viene introdotto nelle botti infuse di caffè per un periodo di tre mesi.

Ed ecco la bevanda nella sua forma finale, uno spirit da gustare liscio, con ghiaccio o all’interno di classici come l’Old Fashioned, il Carajillo e l’Espresso Martini.

Non manca poi il risvolto sociale, perché chi coltiva e lavora nei campi fa parte del progetto Alcatraz, che coinvolge ex criminali in nuove attività produttive a contatto con il territorio.

Aggiunge Andrea Pomo: “L’italiano medio è abituato all’espresso, mentre il cold brew è un concetto ancora innovativo a cui Santa Teresa si è voluto agganciare, con la prospettiva che diventi un ingrediente in miscelazione sempre più usato.”

Edoardo Nono si inserisce: “In realtà a pensarci bene, in Italia il caffè freddo, shackerato, con il liquore di vaniglia, era già un classico prima ancora della creazione dell’Espresso Martini.

In questa versione del Santa Teresa è interessante proprio la discussione che si è aperta attorno al caffè che solitamente è usato seppur in tante declinazioni, con una parte zuccherina che ne altera il sapore. In questo caso preciso invece, si parla di un distillato che mantiene invariata la sua struttura, con delle reminiscenze di caffè che non ne influenzano l’integrità – cosa che spesso accade quando si sceglie di inserire il caffè -“.

E poi arriva la domanda delle domande: come dovrebbe trattare il bartender, il caffè?

La risposta dovrebbe essere: come userebbe tutti gli altri ingredienti. Quindi, informandosi su processi, sui modi di coltivazione, sull’origine, sui metodi di tostatura ed estrazione, in modo da adeguarlo al proprio output.

Per esempio, l’estrazione a freddo permette di trovare ancora più abbinamenti, assonanze, con quei distillati che portano in sé quelle caratteristiche che sono riscontrabili nel caffè. Il prodotto stesso porta al giusto accostamento. Terroir, provenienza, lavorazione, hanno la loro influenza sul risultato finale.

Una delle prime questioni che si deve porre il professionista quindi è: come interpretare l’ingrediente?

Il caso di Rita Cocktails e di Rita’s Tiki Room

Nella storia della miscelazione il Rita’s Tiki Room è quello che ha più esempi di usi del caffè come ingrediente dei cocktail. Ne parla Alessandro D’Alessio, head bartender del Rita’s Tiki Room, quando descrive la drink list creata in occasione di Wecoffeclub.

Innanzitutto sul bancone, compaiono una miscela e una monorigine realizzate in collaborazione dei micro roasters Acqua e Polveri:

“Queste due soluzioni sono state pensate per rispondere ad una domanda ipotetica posta dal bartender, che nel suo locale ha la necessità di usare un prodotto come il nostro, smart, pronto all’uso e dotato del suo bugiardino per spiegarne le varie declinazioni. Certo, poi non c’è limite alla creatività.

Questo è stato il primo passo, avvenuto due anni fa, perché nessuno ancora aveva esplorato il caffè legato al bartending trasportandolo nell’epoca moderna.

Lo specialty blend è più versatile e meno traumatico, mentre la monorigine è un Papua Nuova Guinea, un po’ più funky e acido.”

Come li abbiamo usati nei drink a Wecoffeeclub?

Il nitro bomber

Il nitro bomber nasce dal desiderio di unire l’aperitivo milanese per eccellenza, il Milano Milano, liquore di rabarbaro e bitter in parti uguali, con l’unione del cold brew per dare diluizione. Per conferirgli una texture maggiore però, abbiamo aggiunto il nitro con la miscela e poi abbiamo dato un fondo di liquirizia e poi nitrato la bevanda nella sua totalità con un risultato setoso simile alla guinness, senza essere gasato.

L’americano

Si passa all’americano: sfruttate le note verdi, adattando l’acidità al cocktail. “Con il cold brew abbiamo realizzato un liquore a base di Mastika. Da qua abbiamo lavorato sul template americano, implementato con due abbinamenti: Mastika al cetriolo con l’aggiunta di una soda classica per ottenere una miscela italiana, con un tocco finale di pompelmo che allontana ulteriormente da un cold brew molto tostato.”

L’ultimo drink

Il terzo drink invece si muove dal classico Espresso Martini: torna il blend, con un colore che deriva dalla prugna e dalla fava Tonca. La parte dolcificante arriva dal sale e il caramello, che si sposa poi con l’espresso, il rum e la fava Tonca.”

Ricette pronta per essere ordinate

“Tutte divise sui due locali: i primi due sono più da Tiki e solo l’ultimo è più adatto al Rita dove abbiamo più necessità di usare l’espresso rispetto al cold brew.

Ovviamente la monorigine è più complessa da miscelare, sebbene sia più interessante”.

Convincere il bartender a usare lo specialty nella miscelazione è fattibile, facile?

“Non ci si deve fare questa domanda. Piuttosto chiediamoci il perchè nessuno ci abbia provato prima.”

Molti baristi dicono che non usano il caffè nella mixology perché spaventa un po’ il consumatore, che sceglie sempre il classico Spritz.

“In realtà penso che il cliente debba essere sempre un po’ guidato. Non sceglie il drink con il caffè perchè non lo riconosce. Una strategia potrebbe essere quella di servire lo Spritz che viene ordinato.

Una volta conquistatane la fiducia, il cliente si guarderà in giro e noterà che gli altri stanno gustando qualcos’altro e allora si incuriosirà: è quello il momento in cui il bartender deve agire per portare avanti una proposta differente. Si deve creare prima una comfort zone e soltanto in un secondo momento, una volta instillata la curiosità, si può raccontare il resto.”

Il prezzo?

“E’ standard, dai 10 ai 13 euro, perfettamente in linea con i cocktail senza il caffè. Non vogliamo che ci sia una differenza: si deve mantenere un posizionamento di mercato onesto”.

Ma conoscevate lo specialty prima di sperimentare?

“Sì, ma non avevamo mai lavorato con dei professionisti per creare una nostra soluzione. Siamo andati dai ragazzi di Acqua e Polveri, spendendo insieme una giornata per capire che cosa volevamo sviluppare, mettendo d’accordo i nostri due mondi. Una volta che ci siamo compresi a vicenda, abbiamo studiato e prodotto quello che usiamo oggi.

Nel nostro locale abbiamo messo in vendita la miscela e la monorigine, che quest’anno magari caricheremo su un e-commerce insieme a tutti gli altri prodotti legati al nostro brand.

Il target restano i bartender che possono sfruttare questa soluzione smart per la miscelazione. I pacchetti sono da 200 grammi, il blend ha un prezzo di 24 euro e la monorigine 27 euro. Hanno una shelf life di 4/6 mesi, ma tutto dipende da come li si trasforma .”

CIMBALI M2
  • Brambati

Ultime Notizie

  • Water and more
  • Carte Dozio