MILANO – Giuliana ed Emanuele formano una coppia nella vita che ha deciso di aprire un’attività a Verona nel mondo del cioccolato, voglioCioccolato, partendo dalla passione comune diventata poi una professione. Non produttori, ma distributori di prodotti degli artigiani che lo preparano da tutto il mondo.
Fanno subito una precisazione: “Il bean to bar ormai è una definizione sinonimo di qualità che però viene usata anche da realtà più grandi meno attente alla materia prima. Per questo noi parliamo di cioccolato da degustazione, ovvero quello prodotto da chi è molto attento nel selezionare i cacao aromatici.”
Cosa sono i cacao aromatici? C’è una classificazione da seguire?
“Questo è un mondo che non ha regolamenti stringenti. Il cacao aromatico innanzitutto si riconosce alla vista e poi dal gusto: un buon cioccolato oltre all’aroma di cacao presenta altre caratteristiche, dei sentori floreali, fruttati, speziati e molti altri senza aromi aggiunti.”
Ma perché avete scelto di fare proprio i Chocolate Taster?
“Abbiamo scelto di essere rivenditori e Chocolate Taster perché non abbiamo le abilità tecniche per produrre il cioccolato a partire dalla fava di cacao e ci sarebbe stato bisogno di un investimento importante per le attrezzature.
Ci piace il sistema che abbiamo creato, perché ci dà la possibilità di entrare in contatto con molte varietà di cioccolato diverse, che magari un trasformatore non conosce perché è abituato ad avere a che fare con determinate materie prime.”
Quali sono brevemente le varietà del cacao?
“La pianta di cacao è stata suddivisa in tre varietà conosciute oggi: il trinitario, il criollo e il forastero. Il criollo è quello più raro e anche più suscettibile alle malattie, difficile da ottenere (meno dello 0,01% della produzione mondiale) il primo ad essere scoperto dai conquistatori spagnoli, che lo hanno definito appunto come il cacao locale (ovvero, criollo).
Poi esiste il forastero, che è molto più resistente alle malattie e meno fine aromaticamente, esportato soprattutto in Africa. Dall’incrocio tra questi due è nato il trinitario per ottenere un prodotto ibrido che avesse le qualità dell’uno e dell’altro. Un’altra varietà è stata trovata dai conquistatori l’Arriba Nacional dell’Equador, che ora sta scomparendo per via della formazione di altri concorrenti.
Si deve però considerare che questa classificazione ora non è più valida: le piante di cacao oggi hanno il frutto e lo stesso seme che contiene più genetiche e questo è dovuto all’ibridazione della pianta e per il fatto che queste nuove forme sono state trasferite in Africa e in Asia, creando un misto di varietà.
Conoscere la varietà vera e propria quindi, non è così fondamentale: le peculiarità che ci sono nel forastero e nel criollo possono certo essere riconoscibili, ma molto dipende da altre variabili (come viene coltivato, il luogo d’origine).
Conta molto di più l’origine e il gusto finale: un cacao alta percentuale criollo e trinitario, lavorato o fermentato male, non ha un risultato ottimale. Dipende che cosa si vuole ottenere nel prodotto finale: chi lo vuole più equilibrato, potrebbe prediligere delle varietà pregiate del Venezuela ad alte percentuali di criollo con note floreali, di nocciola, delicati.
Chi invece vuole sapori più peculiari può provare il cacao del Madagascar, con note importanti di agrumi e frutti rossi. In Tanzania ci sono più note acidule. Il Perù è
molto fruttato.”
Una volta visto questo, proviamo insieme a leggere un’etichetta così che il consumatore quando deve acquistare, lo fa in maniera più consapevole?
“Partendo dagli ingredienti, la lista corta può essere già un buon segnale. Consigliamo di scartare le etichette in cui si trova il cacao in polvere, perché è la parte meno pregiata della fava di cacao. Altra spia da considerare, l’aggiunta dell’aroma o dello sciroppo di vaniglia che maschera il vero sapore del cioccolato.
Il secondo step sarebbe capire che informazioni dà il produttore al consumatore: quando viene indicata l’origine è già un plus e più si entra nello specifico, meglio è (non basta dire che è del Perù, è come dire che proviene dall’Italia).
Non guardate le percentuali: 80% di fondente non significa che sia di maggiore qualità. Si può avere un cioccolato a 60% che deriva da un lavoro tracciato, dalla cura della materia prima e può avere un livello superiore. La percentuale dice quanto zucchero c’è: occhio quindi nell’etichetta il contenuto dello zucchero.
Nel caso del fondente, al primo posto deve esserci la massa di cacao e non lo zucchero. Il burro di cacao è facoltativo così come l’emulsionante e la lecitina.”
Ma esiste un palato italiano per il cioccolato?
“Non si può parlare di gusto italiano, ma di uno internazionale: ci siamo abituati a qualcosa di amaro che lascia un’astringenza magari con un retrogusto di vaniglia. Poi c’è da aggiungere che il movimento bean to bar da degustazione si sta facendo strada sicuramente più in fretta all’estero, fuori dall’Italia dove la questione del prezzo è un forte ostacolo: spesso riceviamo commenti sui nostri contenuti in cui si critica molto questo aspetto.
Inizialmente abbiamo cercato di contrastare questa tendenza spiegando la lavorazione, la ricerca, il costo della materia prima e dello sfruttamento di chi è alle origini, dietro a quel costo. Ad un certo punto però abbiamo capito che alcuni proprio non vogliono comprendere. E va bene così. Si selezionano anche i consumatori finali, non soltanto la materia prima.”
Ma con i produttori è un problema lo stesso?
“Noi chiaramente siamo in contatto già con produttori consapevoli che acquistano materia prima di qualità. Le realtà piccole che scelgono cacao di qualità inferiore lo fanno soltanto per non perdere la clientela. C’è da dire che comunque chi sceglie di lavorare il cacao per fare il cioccolato, è ancora una nicchia: noi stessi distinguiamo tra chi fa il cioccolato e chi lo sa lavorare.
Chi trasforma il cioccolato in dessert da pasticceria ha un altro tipo di abilità rispetto a chi prepara il cioccolato a partire dal cacao. Il cioccolatiere scioglie la massa di cacao per produrre la tavoletta con il proprio marchio, e il chocolate maker è un vero e proprio
ingegnere: tosta, macina il cacao.”
Ma cos’è il cacao bio?
“Come qualsiasi altro prodotto agricolo deve rispettare dei disciplinari che stabiliscono alcuni parametri come l’utilizzo di sostanze non chimiche e dei protocolli: nel cacao però, la denominazione bio non è per forza sinonimo di qualità. I produttori infatti hanno difficoltà ad ottenere questa certificazione a causa del costo necessario per ottenerla. Alcuni dicono che coltivano nel rispetto dell’ambiente ma non riescono a definirsi bio.”
Ma il cioccolato senza lattosio come funziona esattamente?
“Le normative sia italiane che europee sono vecchie e i tre prodotti che non si potrebbero chiamare cioccolato sono il bianco senza latte, il cioccolato al latte senza latte e il 100% fondente perché almeno un minimo di zucchero deve contenerlo. Per fare arrivare il messaggio al consumatore noi utilizziamo comunque la definizione cioccolato. Sono aspetti burocratici molto anacronistici. “
Ed è buono?
“Parlando dei nostri prodotti, i bianchi sono i più interessanti. Solitamente si usa il burro di cacao deodorizzato insapore così il risultato è formato dall’unione di latte e zucchero. Alcuni nel bean to bar, usano il burro di cacao naturale perché mantiene gli aromi del cacao di origine: se la materia prima è di qualità, si riflette poi nel burro. Con questi si creano bianchi vegani, senza latte, ma con farina di mandorla o d’avena ed il risultato è davvero buono.”
Voi avete anche studiato l’abbinamento tè-cioccolato: ce ne parlate?
“Abbiamo organizzato dei corsi con questa idea: si mangia con il tè il cioccolato, che si fonde alla temperatura corporea aiutato dal liquore nella scioglievolezza. Uno degli abbinamenti più riusciti: il tè bianco White Moonlight che ha note un po’ lattiche, con un Tanzania 78% con note di frutta secca e cremoso. Si bilanciavano bene. E poi un altro Wild Lapsang Souchong tè nero con note fruttate abbinato a un cioccolato particolarmente fruttato del Perù, un 70% con note di passion fruit.”
E con il rum?
“Proponiamo questo accostamento in negozio, con dei rum da gustare insieme al cioccolato. Parliamo di un abbinamento che funziona ed ha una sua storia: sicuramente ci sono dei fondenti che si adattano al rum, come quelli del Centro America (Jamaica, Repubblica Dominicana) dai sapori molto persistenti, con note di caffè, di frutta matura.
Un esempio: il cioccolato del Nicaragua, della zona di Waslala al 70%, con dei rum agricoli come un Bally ambrato giovane con note di legno. Il limite si può dire che è un po’ la fantasia e la voglia di sperimentare. Dispiace andando in qualche locale e ordinare il rum portando il cioccolato classico di pasticceria con note inesistenti.”
Il settore così artigianale quindi, lo vedete crescere?
“La conoscenza inizia ad esserci, anche se molto limitata. Servirebbe una spinta maggiore da parte delle Fiere specializzate: nel periodo da ottobre sino ad aprile, ci sono tante manifestazioni itineranti dove si punta però più alla quantità.
Però ci sono anche realtà in cui si inizia a fare un discorso diverso, come Eurochocolate e Chocolove. Ci sono anche nuovi clienti che pian piano abbiamo accolto. È un processo
lento, ma esiste la nuova generazione che è molto più curiosa. Nelle nostre masterclass di degustazione notiamo molto l’interesse dei giovani nel cogliere gli aromi e le sfumature. Una cosa è certa: una volta assaggiato questo tipo di cioccolato non si torna indietro.”