BINASCO (Milano) – Lo storico brand Faema fa il suo ritorno nel Giro d’Italia dopo oltre mezzo secolo. Per rivivere il passato con il viso rivolto sempre verso il futuro, i leggendari corridori Vittorio Adorni, Marino Vigna, Italo Zilioli e Antonio Bailetti si riuniscono nella sede del MUMAC per rievocare la storia all’insegna di due dei simboli italiani d’eccellenza di questo secolo e di quello precedente: il caffè e il ciclismo. Vittorio Adorni si racconta in un’intervista nella quale spiega il suo rapporto con il brand Faema che lo lega da decenni e come è nata la passione per questo straordinario sport.
Come è nata la sua passione per il ciclismo? Come si è approcciato a questo mondo?
“È incominciato tutto ascoltando la radio. Nella mia infanzia non c’era la televisione. Ero un grande tifoso del ciclismo. Ad un certo punto della mia vita sono finalmente riuscito ad avere una bicicletta: questo si tradusse in molte gite e gare con i miei amici ed è stato lì che si è accesa la scintilla che si è trasformata nel fuoco della passione.
Alcuni dei miei amici mi chiesero: “Perché non ti iscrivi alla società a Parma?” Ho deciso di dargli retta e ho incominciato a fare le mie prime gare. Ricordo la gara del mio debutto nel 1955 con l’Audax Parma. Mi avevano dato una bicicletta con il numero della corsa e ho cominciato con calma. È iniziato tutto un po’ per caso e per gioco.
Nel 1960 sono andato a gareggiare a Casale Monferrato e infine a Roma dove ero stato selezionato come riserva in occasione delle Olimpiadi per l’inseguimento a squadre. Alla fine non scesi in pista per gareggiare. Da lì presi la decisione di non correre più in pista ma di correre su strada e ho cominciato a vincere in Toscana, in Liguria e naturalmente a Parma.
Successivamente sono diventato professionista nel 1961 con Learco Guerra. Era venuto a vedermi in occasione di una corsa a Piacenza. C’era una salita dura e impegnativa. Chiunque avesse raggiunto la cima della salita con 3 minuti di distacco in salita avrebbe vinto 50.000 lire. Io staccai tutti di 4 minuti. Arrivai all’arrivo e Learco Guerra mi prese da parte e mi disse: “Dammi il telefono e ti chiamerò”.
Dopo neanche un mese mi chiamò e mi disse di aver formato la squadra professionisti 1961 con me all’interno e venne a Milano per farci sottoscrivere il contratto. In questo modo sono passato come professionista nel 1961 con lui e ho smesso nel 1970. Ecco come è iniziato tutto.”
Come si è sentito a rivivere la collaborazione con Faema a distanza di anni e rivedere dei volti noti della sua carriera?
“Essere qui oggi è una bella esperienza. Ho corso nel 1968 con la Faema. In quell’anno ho vinto il campionato del mondo. A casa ho ancora le fotografie con la maglia rigata con su scritto Faema. Ho vinto il mondiale a Imola. In quell’anno lì ho finito con la Faema. Poi, dal 1970, ho fatto il direttore sportivo per tre anni.
I miei corridori hanno vinto due campionati del mondo: Marino Basso e Felice Gimondi. Poi ho deciso di smettere la carriera sportiva e dedicarmi al mondo delle assicurazioni aprendo uno studio nel 1976.
Un lavoro che mi ha sempre affascinato considerando che mi piace stare in contatto con le persone. Ora ho lasciato tutto a mio figlio e a mia figlia.”
Ha provato nostalgia per il mondo del ciclismo quando ha abbandonato?
“No. Sia fisicamente che mentalmente ho dato molto a questo sport. Anche nella mia carriera di 9 anni come Presidente del consiglio del ciclismo professionistico all’interno dell’Unione ciclistica internazionale ho apportato il mio contributo allo sport senza esserne più come protagonista.
Da Parma in Svizzera ho contribuito a migliore la riforma delle squadre con 20 corridori e non solo 10. È stato un lavoro di nove anni far approvare la riforma.”
Qual è la differenza tra il suo ciclismo e quello di oggi?
“Ci sono molte differenze. Una volta i ciclisti erano sottoposti a regolamenti più severi: ora i corridori sono più liberi. Le squadre offrono più soldi al corridore singolo e hanno una struttura più complessa. Una volta c’era solo un massaggiatore e una persona che si occupava di nutrire l’atleta con panini: ora invece i ciclisti sono costretti a seguire un regime alimentare più studiato e scientifico”.
di Federico Adacher