MILANO — Un reportage dedicato al passato e al presente dell’industria del caffè nel secondo paese produttore mondiale di questa commodity: il Vietnam. Lo ha pubblicato Repubblica nel suo numero di lunedì 7 gennaio. Autore del contributo, Nicola Baroni che ha ripercorso le tappe salienti nella storia della diffusiona delle coltura nella nazione indocinese e la progressione straordinaria che ha consentito al Vietnam di passare, in meno di trent’anni, dal ruolo di produttore marginale a quello di protagonista assoluto sul fronte della coltivazione dei robusta.
Vi proponiamo di seguito il testo integrale dell’articolo.
Vietnam: la genesi del secondo Paese produttore del chicco
“Durante la guerra americana era pericoloso raccogliere il caffè”. Lo racconta Nguyen Van Man, coltivatore nella provincia di Dak Lak, Vietnam centrale. Dove “molte piantagioni appartenevano agli americani e sotto di esse c’erano i tunnel scavati dai vietnamiti per rifugiarsi e attaccare con imboscate a sorpresa.
Era meglio acquistare caffè solubile al mercato nero: di solito proveniva dalle razioni dei soldati statunitensi e in gran parte era di origine brasiliana o filippina”. Oggi che il Vietnam è il secondo produttore ed esportatore mondiale di caffè. Dietro solo al Brasile, e primo per la varietà Robusta, si sorride di fronte al paradosso cui i vietnamiti per anni sono stati costretti.
Il rito del caffè del Vietnam
Ma la storia del caffè vietnamita, oltre che di questi paradossi, è fatta di benefici coloniali e orgogliose riappropriazioni culturali. Ai bordi delle caotiche strade dell’ex Saigon, oggi Ho Chi Minh City, si trovano centinaia di caffetterie di ogni tipo. Indipendenti, appartenenti a catene locali come Highland Coffee o internazionali come Starbucks, nel Paese dal 2013.
Turisti e vietnamiti siedono a contemplare il caffè che goccia lentamente attraverso il phin. Un filtro d’acciaio appoggiato direttamente sulla tazza. Tempo medio passato a sorseggiarlo: venti minuti, che diventano quaranta nella regione del Delta del Mekong. È il modo con cui i locali oggi si godono questa bevanda amara, di solito aggiungendo latte condensato e ghiacci.
Una rivoluzione recente
Il lungo rituale e i numeri del caffè vietnamita nel mondo farebbero pensare a una tradizione centenaria del chicco nero in questa striscia di terra stretta tra Cambogia, Laos e Mar Cinese Meridionale. Ma basta chiedere ai coltivatori da quanto tempo fanno questo lavoro per rendersi conto che la maggior parte di loro ha iniziato a coltivare caffè solo di recente.
Nguyen Chi Thanh, per esempio, coltivava riso prima di partire per la guerra in Cambogia nel 1979. Quando è tornato in Vietnam, nel 1982, ha cominciato a lavorare nelle piantagioni di caffè, a quei tempi tutte di proprietà statale.
Nessuno allora vedeva il chicco introdotto nel Paese dai francesi a metà Ottocento come un prodotto locale. E in pochissimi ne bevevano l’estratto: “Le aziende statali puntavano su una produzione intensiva che ignorava la qualità del prodotto”. Così racconta Chi Thanh, “spesso raccoglievamo i chicchi fuori tempo. Quando non erano ancora maturi. La qualità perciò era molto bassa”.
La svolta con il Doi Moi
Solo nel 1986, con le riforme economiche del Doi Moi che hanno aperto il paese al libero mercato, i vietnamiti si sono accorti delle potenzialità fino a quel momento ignorate del caffè. Quell’anno nel Paese vennero raccolte 18.400 tonnellate di chicchi, meno dell’1% del totale mondiale, ma in tre decenni i volumi sarebbero quasi centuplicati, facendo del Vietnam il secondo produttore ed esportatore di caffè. Nel 2017 ne sono stati raccolti 1,77 milioni di tonnellate. Ovvero, il 18,5% del totale mondiale.
Aumentare il valore
Una crescita favorita anche dagli investimenti internazionali, che non si è ancora arrestata. “L’obiettivo oggi è aumentare il valore e non i volumi delle piantagioni”. Così spiega Will Mackereth, direttore Supply Chain di Nescafé Vietnam.
“Le piantagioni esistenti spesso sono composte da piante deboli e poco produttive. Dal 2011, nell’ambito del Nescafé Plan, abbiamo messo a punto con il locale istituto di ricerca e sviluppo Wasi un sistema di rinnovamento delle piante che arriva a duplicare la produttività per ettaro delle piantagioni esistenti. In otto anni abbiamo distribuito 27 milioni di nuove piantine, controllando ogni volta che venissero effettivamente sostituite, e non rivendute o utilizzate per creare nuove piantagioni”.
Il Governo oggi vieta di aumentare gli ettari coltivati a caffè a danno delle foreste. Ma capita, sorvolando le aree più incontaminate del Paese, di vedere piccoli rettangoli verde chiaro interrompere come rattoppi la continuità delle foreste: sono le piantagioni illegali. Per Will Mackereth invece c’è ancora molto margine per l’aumento della produzione senza bisogno di disboscare neanche un ettaro di foresta.
Rinnovo graduale
I coltivatori di solito procedono gradualmente al rinnovamento della piantagione. Perché i nuovi esemplari, pur garantendo una resa molto superiore in termini di volumi e qualità, diventano produttivi solo dopo 2-3 anni dall’interramento.
Oggi è molto diffusa anche la pratica dell’intercropping (colture consociate). Cioè la diversificazione della piantagione per proteggersi dalle oscillazioni annuali dei prezzi. Oltre alle piante di caffè, che la fanno da padrone, nello stesso terreno crescono tè, banani, anacardi o più spesso pepe nero.
Nestlé compra il 25% del caffè vietnamita
Al termine della raccolta i coltivatori, con l’intermediazione delle cooperative, possono scegliere a chi vendere il loro caffè. Nestlé acquista da sola il 25-30% della produzione nazionale: in parte questo caffè viene esportato crudo, in parte lavorato nello stabilimento di Tri An.
Se invece che nel regno di Willi Wonka, Roald Dahl avesse portato il suo Charlie Bucket in una fabbrica del caffè. Al posto dei fertili fiumi di cioccolato avrebbe descritto arse dune sabbiose tinte di ogni tonalità di marrone.
Nel tempio delle polveri
Tra chicchi tostati, caffè macinati, montagne di solubile e sabbiosi concentrati di caffeina, la fabbrica di Tri An è il tempio delle polveri, tutte ottenute con metodi 100% naturali. Anche la decaffeinizzazione – due le fabbriche dell’azienda a farla, l’altra è a Girona, in Spagna – viene effettuata sul chicco verde attraverso il solo uso di acqua, senza aggiunta di composti artificiali.
La caffeina di scarto che si accumula al termine del processo è all’apparenza un’innocua polvere ocra, ma gli indisciplinati personaggi di Roal Dahl con questa avrebbero potuto correre guai molto più seri di quelli avuti col cioccolato.
Il concentrato di caffeina non viene eliminato ma rivenduto all’industria farmaceutica o ad aziende che producono bevande contenenti questa sostanza psicoattiva. Il chicco decaffeinato invece viene esportato verde o, in alternativa, tostato per iniziare in loco il ciclo di solubilizzazione.
La solubilizzazione
Anche il caffè solubile è ottenuto senza aggiunta di composti sintetici. Si parte dal comune caffè liquido appena estratto (attraverso classiche moke, di quelle che si usano quotidianamente, solo un centinaio di volte più grandi): il caffè viene quindi vaporizzato e arriva in un canale di aria calda che semplicemente disidrata le goccioline di caffè in modo da depositare sul fondo la polvere sottile che conosciamo.
È lo stesso processo che si ripete da ottant’anni, messo a punto nel 1938 da Max Morgenthaler, quando il governo brasiliano chiese il suo aiuto per trovare un modo per conservare il caffè invenduto a causa del crollo di Wall Street del 1929.
Il ricordo delle razioni K
Quello stesso processo di solubilizzazione che permise ai soldati statunitensi, prima nella seconda guerra mondiale e poi durante la guerra in Vietnam, di avere con sé in ogni occasione, all’interno della famosa razione K, del caffè in polvere da versare all’occorrenza in un bicchiere d’acqua.
E tra i vietnamiti è ancora vivo il ricordo dei tempi amari in cui l’unico modo per bere caffè era acquistarlo sul mercato nero proprio dai soldati americani. Forse è per questo che per l’uso domestico i locali continuano a preferirgli il caffe macinato. Il solubile lo producono soprattutto per il mercato estero, ovviamente anche americano.
Nicola Baroni