MILANO – L’ Huffington Post ha pubblicato un interessante articolo sugli effetti della caffeina: ve lo proponiamo
Il neuroscienziato della Stanford University Russell Poldrack (FOTO sopra) è il proprietario orgoglioso del cervello più “studiato” al mondo.
Nell’arco di 18 mesi, Poldrack si è sottoposto a 10 minuti di risonanza magnetica funzionale ogni martedì e giovedì mattina ed ha eseguito analisi del sangue settimanali per analizzare la sua espressione genica.
“Non abbiamo mai avuto una simile quantità di dati su una sola persona. E non abbiamo mai raccolto informazioni su una singola persona per un periodo di tempo tanto lungo”, ha dichiarato all’Huffington Post.
I risultati, pubblicati la settimana scorsa sulla rivista Nature Communications, fanno luce sul funzionamento del suo cervello e più in generale su questo organo, ma mostrano anche come questo cambi col tempo.
La sua scoperta più sorprendente? Il cervello può completamente “riorganizzarsi” quando è a corto di caffeina.
Mappare le connessioni del cervello
Obiettivo di Poldrack era capire meglio le molteplici connessioni che permettono alle diverse regioni del cervello di comunicare tra loro.
Mentre le mappe realizzate in precedenza si sono basate su una serie di immagini prese da diversi cervelli per creare una fotografia generale su come le diverse aree cerebrali si connettono per formare una rete, la mappa di Poldrack è stata la prima a tracciare un solo cervello nel tempo.
La sequenza di risonanze magnetiche funzionali ha rivelato quali regioni del cervello di Poldrack si stavano “parlando” e quanto la loro comunicazione cambiasse in un arco di tempo. L’insieme dei dati raccolti ha prodotto la più dettagliata mappa delle connessioni del cervello mai creata.
Poldrack e i suoi colleghi hanno identificato 630 regioni e 13 reti nel cervello del neuroscienziato, numeri che, come dice lo stesso autore, probabilmente variano da soggetto a soggetto.
Scandagliare questi sistemi di connettività è importante perché i loro meccanismi di funzionamento possono avere un impatto significativo sul nostro comportamento.
Il connettoma (la mappa delle connessioni neurali) di Poldrack ha avuto un andamento abbastanza costante durante i 18 mesi. Tuttavia, lo studioso ha osservato alcuni cambiamenti che non erano mai stati documentati prima in neuroscienza.
Sorprendentemente, il fattore che incideva di più sulla connettività cerebrale era il caffè del mattino. Quando Poldrack non assumeva caffeina, le parti del cervello coinvolte nelle funzioni basilari (come la visione e il movimento) mostravano maggiore connettività, mentre altre aree ne mostravano meno.
“La cosa interessante (e del tutto inaspettata) è stata scoprire che ci sono alcuni sistemi nel mio cervello che si stabilivano connessioni più forti e che riorganizzavano completamente la loro connettività quando non bevevo caffè. Questo dato dimostra che il caffè cambiava sistematicamente l’organizzazione del mio cervello”, ha affermato Poldrack.
Le scoperte hanno indicato anche alcune interessanti connessioni cervello-corpo, dal momento che le analisi del DNA rivelano un forte legame tra i mutamenti nelle funzionalità cerebrali e le variazioni dell’espressione genica. Ma su questo punto sono necessarie ulteriori ricerche, prima di giungere ad una conclusione certa.
“Ci sono tantissime relazioni tra la connettività del cervello e l’espressione genica del sangue. Sono lì e sembrano essere forti, ma non abbiamo ancora trovato un modo per comprenderle che si basi sulla neuroscienza attuale”, ha detto Poldrack.
In generale, l’esperimento mostra che un’analisi del cervello a lungo termine può rappresentare uno strumento utile per i neuroscienziati, perché potrebbe permettere loro di fare luce sui cambiamenti del cervello che avvengono nel corso di settimane o mesi, soprattutto in casi individuali di disturbi come la schizofrenia o il disturbo bipolare.
Poldrack ha reso disponibile l’insieme di dati raccolti per gli scienziati che vogliono immergersi nel suo studio e scoprire nuove connessioni.
“La frequente variabilità nel tempo che osserviamo in persone affette da queste patologie ci dice che non dobbiamo osservarle in una singola immagine, ma analizzarle nel corso del tempo e notarne le oscillazioni. Questi dati dimostrano che possiamo farlo”, conclude Poldrack.
Questo post è stato pubblicato per la prima volta su HuffPost Usa ed è stato poi tradotto dall’inglese da Milena Sanfilippo