di Leda CESARI*
What else? Ma guai a pronunciare davanti a lui il pay-off della fortunata campagna pubblicitaria di una nota multinazionale: perché Antonio Quarta (nella FOTO a sinistra con i figli Gaetano ed Edoardo) lui, di caffè in capsula, non vuol neppure sentir parlare.
E a chi gli chiede già da tempo di immaginare un Caffè Quarta “monoporzionato” – come chiama lui la capsula – risponde: giammai.
Non a caso è stato presidente dell’Associazione Italiana Torrefattori e faro di un prodotto simbolo dello status del salentino in giro per il mondo (che come è noto in valigia mette prima il Caffè Quarta e poi lo spazzolino da denti).
Perché, dottor Quarta, giammai?
«Mah…in un momento di crisi economica in cui si parla di ecocompatibilità e politiche anti-spreco, trovo assurdo che si possa diffondere tra i consumatori l’uso in monoporzionato di un prodotto così largamente usato come il caffè».
L’interminabile crisi economica?
«Non direi, perché oggi il caffè, come prodotto di largo consumo, mantiene inalterate le sue fette di mercato, anche se poi qualche produttore, mette in circolazione materie prime di qualità scadente e magari alcuni clienti in crisi fanno fatica a pagarti. Il problema vero, sono i quattro aspetti che io definisco “etici”, se parliamo di caffè in capsula: la salute, l’ambiente, l’economia, la tradizione».
Scusi, cosa c’è (o non c’è) di etico in una tazzina di caffè?
«Glielo spiego subito. La maggior parte delle capsule sono in plastica, e c’è chi sostiene che ad alte temperature durante l’erogazione del caffè, parliamo di 90 gradi, rilascerebbero sostanze come ftalati e bisfenolo. Ne ha mai sentito parlare? E’ lo stesso discorso dell’acqua minerale contenuta nelle bottiglie di plastica stoccate sotto il sole, magari a 40 gradi. Ecco, in quel caso scattano i sequestri nei supermercati per garantire la sicurezza dei consumatori. Per questo motivo, fino a quando a quando il dibattito medico scientifico non si chiarirà la mia posizione rimarrà contraria».
E l’ambiente? Cosa c’entra l’ambiente?
«Tanto per cominciare la capsula usata non può andare in nessun tipo di raccolta differenziata – è in sostanza un rifiuto speciale. Altro impatto ambientale è quello logistico: un chilo di capsule occupa lo stesso spazio di sei chili di caffè confezionato tradizionalmente. E ancora, il dato economico: gli alti costi dovuti al confezionamento e al trasporto di questa tipologia di prodotto determinano un’alta differenza di prezzo: 8/12 euro/kg il prezzo di una miscela di caffè prodotta per la moka tradizionale, contro i 70/80 euro/kg per una miscela di caffè in capsule; con un kg di caffè per moka possiamo preparare fino a 200 caffè a meno di 5 centesimi l’uno, mentre una capsula arriva a costare anche 45 centesimi. Poi, ancora…».
Ancora?
«Certo, ancora. Questo business è nelle mani delle grandi multinazionali straniere, capaci di persuadere i consumatori con grandi operazioni di marketing, in grado di violentare una delle tradizioni più care agli italiani, il mito del rito del caffè. A casa con la moka, al bar con l’espresso. Omologando anche questa nostra abitudine, andremo a standarizzarci come con Coca-cola e McDonald’s. Un grande patrimonio culturale, in termini di know-how, andrà perduto. Ancora una volta a vantaggio di multinazionali».
Abbiamo capito, la capsula non le piace. E la cialda, invece?
«La cialda può rappresentare il giusto compromesso, in fatto di monoporzionato, anche perché le relative macchine sono a sistema aperto: funzionano con le cialde di qualsiasi marca, sono in sostanza un sistema più democratico e libero, non quello imposto per diktat dalle multinazionali. Inoltre la cialda ha anche un impatto ambientale ridotto, perché il suo involucro è fatto di carta- filtro e quindi può andare anche nella raccolta differenziata, costando peraltro metà della capsula. Tutto questo, naturalmente, qualora si volesse proprio rinunciare ai pochi ultimi baluardi “romantici” della nostra esistenza: il caffè con la moka…e l’espresso al bar. Purtroppo in Italia, molto spesso, il mercato si adegua al business rinunciando alla nostra identità a favore di prodotti stranieri».
Però, si dice anche che il caffè tradizionale in grani, quando è “lucido”, è perché ci sono additivi per conservarlo meglio. Come replica?
«Guardi, chi dice queste cose non sa davvero nulla in fatto di caffè. La lucentezza del chicco che si sprigiona dopo la tostatura è sinonimo di freschezza, indice di presenza di caffeone: sostanza aromatica e oleosa che il chicco perde quando comincia a invecchiare. Vuol dire insomma che il caffè è fresco. Essendo una spezia, è bene macinare il caffè in chicchi immediatamente prima di prepararlo, come avviene per l’espresso al bar. Per questo gli italiani lo amano, capsule o no».
Per chiudere, due brevi consigli per consumarlo al meglio.
«Scegliere una miscela di qualità, con un bicchiere d’acqua bevuto prima, per liberare il palato da altri sentori e diluire l’impatto diretto della caffeina nello stomaco e sul sistema nervoso. Dopo, poi, c’è solo spazio per il gusto…e retrogusto ».