TRIESTE – Potenziare la rotta Africa-Trieste del caffè di qualità in entrambe le direzioni. Volumi adeguati di materia prima accuratamente selezionata dalle piantagioni del Kenya verso il porto triestino. E know-how e attrezzature italiane verso il Kenya per diffondere anche nelle strutture turistico-ricettive del Paese africano i consumi dell’espresso tricolore, ufficialmente candidato a patrimonio immateriale dell’umanità dell’Unesco.
Lo sviluppo della rotta africana è l’obiettivo del Memorandum of Understanding (MoU) siglato dall’Associazione Caffè Trieste e dal Ministero dell’agricoltura, fauna, pesca e cooperazione del Kenya.
Un accordo che segue tre anni di contatti avviati nel 2018 con una prima visita informale a Trieste di rappresenti kenyani, seguita a maggio 2019 da una missione ufficiale in Italia in cui erano stati definiti in maniera preliminare i punti salienti della collaborazione.
Dopo le pause e i ritardi dovuti al Covid, lo scorso novembre si è giunti alla sottoscrizione formale dell’accordo.
Le tre finalità principali sono favorire la conoscenza del caffè prodotto dall’agricoltura kenyana e la sua comunicazione sul mercato italiano, realizzare missioni in Kenya per far dialogare gli operatori italiani con i produttori locali, aprire un canale commerciale per macchinari e attrezzature di settore di produzione italiana nel mercato del Paese africano.
Perché il caffè kenyano
«Il Kenya è un territorio di origine di caffè di ottima qualità, molto interessante per la torrefazione italiana», commenta Fabrizio Polojaz, presidente dell’Associazione Caffè Trieste, 130 anni di storia, la più antica in Italia e tra le più antiche in Europa che rappresentano la filiera del settore.
«Le importazioni nel nostro Paese di caffè kenyano, prevalentemente di tipo arabica utilizzato sia nelle miscele per espresso sia come mono origine, si sono più che dimezzate negli ultimi 10/15 anni, non per un problema di qualità ma perché non ne era garantita la disponibilità continua sul mercato e l’attinenza costante ai particolari profili organolettici richiesti dai torrefattori. E quando ci sono dei gap di disponibilità del prodotto e mancano le garanzie di reperibilità, i torrefattori si orientano su altre origini che assicurano continuità di forniture omogenee di caffè omologhi in grado di dare le stesse caratteristiche alla miscela finale. La collaborazione che abbiamo avviato con i kenioti mira anche a risolvere questo problema».
C’è inoltre una questione di posizionamento del porto di Trieste rispetto alle direttrici internazionali dei traffici navali: «Il caffè dell’Africa orientale, così come quello asiatico, passando attraverso il canale di Suez arriva più direttamente in Adriatico, mentre quello del Centro e Sud America ha come terminali più convenienti i porti del Tirreno o del Nord Europa».
Trieste “capitale del caffè” Il capoluogo giuliano è uno dei principali distretti del settore in Italia, un cluster in cui a parte ovviamente le piantagioni, sono presenti tutti i segmenti della filiera: crudisti, torrefattori, logistica, decaffeinizzazione, produttori di macchine e attrezzature, certificatori e laboratori di analisi.
Il porto di Trieste è il primo in Italia per quantità di derrate caffeicole importate nel nostro Paese, con una quota di circa il 20% del totale. E Trieste è storicamente un simbolo del caffè all’italiana, una città con un consumo medio pro-capite doppio rispetto alla media nazionale, con anche un proprio rito della tazzina che ha peculiarità diverse da altre zone d’Italia (per esempio un proprio gergo quando si ordinano espresso e cappuccino al bar: “nero”, “nero in b”, “caffelatte”, “capo in b”, “goccia”). Un rito, quello della tradizione triestina, recentemente celebrato anche in un articolo di BBC Travel.
Le esigenze della filiera triestina e italiana in Kenya
Polojaz sottolinea come tra le esigenze fondamentali nella filiera del caffè c’è quella di ricevere la materia prima trattata al meglio per il tipo di lavorazione prevista. Non grezza ma selezionata in funzione dell’utilizzo dei trasformatori.
«L’industria italiana della torrefazione ha bisogno di capire cosa il paese d’origine può fornire e di comunicare la corretta modalità in cui si vuole ricevere il prodotto, questione che concerne quindi anche problematiche di agronomia e di adeguati processi post raccolta e di preparazione per l’export”, spiega Polojaz. «Come Associazione abbiamo già fatto missioni di questo tipo in India, in Guatemala, in Sudamerica, e prima dell’avvento del Covid ci stavamo appunto dirigendo verso l’Africa».
Le opportunità di mercato in Kenya L’Associazione Caffè Trieste vede nell’accordo con il Kenya anche un’ottima opportunità nel mercato del Paese africano per le tecnologie triestine e italiane. I produttori di attrezzature da bar possono puntare a catene alberghiere e resort, visto che il Kenya è una popolare destinazione turistica per gli occidentali, cioè il target di consumatori più abituati all’espresso che hanno piacere di trovare il caffè all’italiana anche nelle loro mete più esotiche. Mentre i produttori di attrezzature agricole e di primo trattamento, come per esempio silos di stoccaggio e macchine selezionatrici, possono intercettare l’ampio potenziale di sviluppo locale.
La sostenibilità sociale per gli agricoltori del Kenya
L’incontro e il dialogo tra l’Associazione Caffè Trieste e il Ministero dell’agricoltura e il Coffee Board del Kenya è stato favorito e supportato dalla società di consulenza padovana Bergs&More, studio legale, tributario e di business advisory internazionale con presenza anche in Medio Oriente e in Africa, dove ha sedi operative a Dubai, Doha e a Nairobi capitale del Kenya. Bergs&More ha assicurato i contatti operativi durante il periodo Covid quando gli incontri previsti non erano stati possibili.
A seguire l’iniziativa è stata Rita Ricciardi, presidente anche dell’Associazione per il Commercio Italo-Kenyana, una professionista con oltre 20 anni di esperienza diretta in Africa orientale, di cui 10 nell’agenzia FAO dell’ONU su progetti complessi in ambito agricolo e allevamento, che insieme ai rappresentanti delle due parti sarà membro del Comitato di gestione per l’attuazione degli obiettivi condivisi.
«L’implementazione di questo MoU può aiutare a superare le problematiche che hanno finora limitato la diffusione internazionale del caffè kenyano, a partire appunto dall’importante mercato italiano che per il Kenya rappresenta oggi solo l’1% dell’export nazionale di questa derrata agricola, il 23simo al mondo, per un valore nel 2019/20 di circa 1,2 milioni di dollari», osserva Ricciardi.
«Ma c’è anche un approccio sociale oltre che economico, in una logica di sostenibilità cara all’Associazione Caffè Trieste, perché si punta alla crescita degli agricoltori. Si vuole infatti lavorare con il governo del Kenya per aiutare innanzitutto gli small farmer che sono soprattutto donne, per poi andare a coinvolgere anche gli operatori più grandi. In tal senso l’obiettivo primario è fare incontrare direttamente produttori agricoli e importatori, tagliando la catena degli intermediari che oggi, da una parte realizzano gran parte del guadagno lasciando poco agli agricoltori, dall’altra rappresentano un notevole costo aggiuntivo che rende il caffè kenyano troppo caro e quindi poco competitivo sul mercato».
La consulente evidenzia inoltre la rilevanza delle attività di mappatura del caffè, perché per assicurare nelle forniture la continuità nel tempo di una qualità organolettica omogenea del caffè, così fortemente richiesta in Italia, è necessario che si stabilisca un rapporto diretto con i produttori agricoli senza passare da intermediari che invece possono cambiare spesso le loro fonti di approvvigionamento e quindi le caratteristiche del prodotto.