TRIESTE – Ecco la trascrizione del primo intervento di Luigi Morello, qui in qualità di Presidente Iei) al Trieste Coffee Experts.
Intanto voglio dare due spunti su quello che riguarda l’italianità, quindi l’espresso come anche pretesto dell’italianità. Una cosa scherzosa in velocità, se ripercorriamo la storia, la necessità aguzza l’ingegno per cui dalla “pentolina” nasce l’esigenza di creare una macchina da caffè che è proprio italiana e quindi frutto della nostra ingegnosità.
Col tempo e con la povertà come opportunità, con una materia prima sempre più costosa e difficile da recuperare, le guerre e quant’altro, è nata la tecnologia per sfruttare meglio la polvere di caffè.
Quindi abbiamo un’altra rivoluzione e abbiamo il primo espresso italiano vero, quello con la crema, che sembrava inizialmente qualcosa di sofisticato, di addizionato, tant’è che una delle pubblicità era “crema di caffè naturale”.
Sempre nell’ambito della ricerca e dell’utilizzo in modo efficiente, nasce la miscela che ha anche qui un inizio di carenza di materia prima, ma soprattutto si inizia ad avere un primo approccio al gusto, alla sensorialità.
Si inizia a cercare la materia prima ma soprattutto a fidelizzare il cliente con un gusto sempre uguale.
Visitando il museo di Lavazza sono rimasto impressionato da tutti gli appunti che all’epoca prendeva in base alle varie giornate e alle origini di caffè, proprio per poter creare una miscela, un gusto che doveva essere sempre uguale, ma che soprattutto doveva essere reperibile.
Nasce in questo modo l’espresso che poi va in giro per il mondo, creando l’inizio di un percorso che non si è ancora fermato ed è in costante evoluzione.
Da qui cosa succede?
Questo fenomeno, che poi si riconduce a tutto quello che se vogliamo è la sostenibilità, crea in qualche maniera la “tentazione”, il pensiero che la qualità non è più la priorità.
Si inizia quindi ad avere una crisi di valori che fa fermentare le onde che abbiamo visto.
Inizia una reinterpretazione dell’espresso che da commodity va addirittura a fare un espresso con 20 grammi, che sono 20 grammi di esperienza.
Tutti gli interpreti sono riusciti a far sì che l’espresso diventasse un’esperienza, non più una bevanda, ma qualcosa di diverso da vedere, da raccontare.
Arrivando ai giorni nostri, dal mio punto di vista qual è il rischio oggi? È che si perda l’identità come italianità.
Noi siamo stati quelli a creare l’espresso e la miscela, noi non produciamo, trasformiamo, e questa trasformazione è la nostra chiave.
Banalizzare un caffè con un’origine credo che sia rischioso perché non vuol dire che un caffè che proviene dal paese “ics” è buono, è semplicemente una provenienza.
Quindi l’associare la miscela a qualche cosa di negativo, di poco buono e economico, è comunque un rischio che l’Italia potrebbe pagare.
In tanti Paesi, purtroppo, si sente infatti che la miscela è quasi un disvalore. Questo è il focus che volevo lanciare.
Recuperando dei valori, si parlava di sostenibilità, di sostenibilità economica oltre che culturale, e io vorrei lanciare un altro valore che è quello dell’unità, capendo le opportunità.
Vorrei ricordare due cose: una è quella della nascita avvenuta cinque anni fa del Consorzio Tutela del Caffè Espresso Italiano. Al di là dell’opinione di ognuno, è comunque un’occasione per poter restituire un’identità, riaffermare i valori dell’espresso nel mondo e quindi questo è sicuramente uno dei fenomeni da sfruttare.
Così come un altro aspetto, un’altra associazione da sfruttare è l’Iei. Bisognerebbe lavorare sull’originalità dell’espresso, sui vari stili, cioè riuscire a vendere, raccontare l’originalità, quindi non l’origine.
L’Italia è un Paese profondamente diverso: ogni centinaia di chilometri abbiamo diversi dialetti, cibi e abbiamo anche caffè diversi. Dovremmo riuscire proprio a raccontare questa storia.
Questi due spunti per dire che cosa? Cerchiamo di fare sistema. Molto spesso ci concentriamo sulle sfumature, sulle varie differenze. Abbiamo più associazioni che associati, abbiamo tutta una serie di opinioni diverse sulla stessa cosa.
Questo è ciò che volevo lanciare dal punto di vista dell’associazionismo.
Volevo sottolineare di essere uniti come una miscela perché di fatto a fare un concerto non è il singolo ma è l’orchestra, il concerto è dato da tutte le differenze ed è questo che dà il risultato finale, ogni strumento dà il suo contributo alla sinfonia.