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TRADIZIONI – Nei caffè da ordinare al bar Trieste si è persa il “macchiatone”

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Si intitola “Il genio del gusto. Come il mangiare italiano ha conquistato il mondo” il libro di Alessandro Marzo Magno che viene presentato giovedì nel capoluogo giuliano

Cos’è il “macchiatone”?

Persino a Trieste, dove il caffè al bar si ordina almeno in una settantina di modi diversi, il superlativo in tazza è sconosciuto. L’ha inventato una dipendente Enel di Cannaregio, a Venezia, Silvia Bonotto, che tra gli anni ’80 e ’90 lancia tra i colleghi la moda del “cappuccetto”, bevanda con meno latte di un cappuccino e più latte di un macchiato. Tra superlativo e vezzeggiativo la lotta è dura, mentre la popolarità del nuovo “formato” viaggia da laguna a terraferma, quando l’Enel sposta la sede a Mestre e i suoi dipendenti sciamano in altri locali, esportandone l’uso.

La definizione ortodossa è “cappuccetto”, come racconta Adelaide, figlia della detentrice del copyright, Silvia: «Macchiatone (FOTO) pare una cosa riuscita male, mentre cappuccetto comunica tutta la dolcezza e l’accuratezza nel versare quel pochino in più di latte…».

Fatto sta che a Venezia e a Mestre si può ordinare senza suscitare sorprese dietro al bancone, con grande sollievo di un giornalista inglese, Lee Marshall, che nel suo blog sull’«Internazionale», nel 2012, confessa il suo sconforto per l’esiguità dei bar (uno umbro, uno romano) in cui trovare la giusta via di mezzo, che lui chiama “cappuccino corretto”.

E il carpaccio? Nome, anch’esso, dall’origine singolare per un «infante» della gastronomia, con solo mezzo secolo di vita, contro fossili come la pizza, citata da Virgilio, o la pasta, nota agli arabi già nella prima metà del X secolo.

L’ha inventato, nel 1963, Giuseppe Cipriani, fondatore dell’Harry’s Bar di Venezia, espressamente per la contessa Amalia Nani Mocenigo, malata di fegato: carne cruda freschissima, tagliata in fettine sottili come fosse un prosciutto, “irrobustita” da un tantinello di salsa a base di un mix di maionese e Worcester.

«Col carpaccio – dice Cipriani – gli imbrogli sono proibiti. Il suo segreto è nell’essere interamente svelato, nudo come mamma l’ha fatto». Sì, ma il nome? Cipriani padre e il figlio Arrigo, dovendo inserire l’anonimo nel menù, escono in calle Vallaresso, dove si affaccia il loro locale, e si illuminano: affisso al muro di fronte c’è un manifesto che reclamizza la mostra di Vittore Carpaccio a Palazzo Ducale. Il maestro veneziano amava le tonalità scarlatte, e il suo cognome transiterà al celebre piatto di carne sfilettata, rendendo il carpaccio più famoso del Carpaccio.

D’altro canto, restando in tema, ai Cipriani il connubio tra pittura e tavola ha già portato bene. Pensiamo al “bellini”, aperitivo nato nel 1949, quando Palazzo Ducale rende omaggio all’omonimo artista Giovanni, morto nel 1516. Pesche a pasta bianca di Sant’Erasmo, isola della laguna veneta detta l’«orto di Venezia» per la qualità dei suoi prodotti, schiacciate nel passapatate e mai frullate, prosecco ghiacciato di Conegliano: «Vidi che piaceva molto a tutti i clienti – racconta Giuseppe – e siccome era l’anno della mostra antologica del Giambellino, lo chiamai bellini. È diventato un classico».

In un momento felice per l’editoria intorno alle cose di cucina, arriva in libreria “Il genio del gusto” del giornalista Alessandro Marzo Magno, che attraversa mille anni di storia dei prodotti e dei piatti della nostra tavola per raccontare la costruzione, intorno al cibo, della cultura e identità collettiva. Dal 997, l’anno della pizza, al 1979, quando vede i natali lo spritz, si dipana un processo ricco di apporti, di contributi, di “contaminazioni” – come direbbero le star di Masterchef – a dimostrazione che la cucina italiana è andata alla conquista del mondo sapendo accogliere lavorazioni e ingredienti da altri paesi, facendoli propri e reinventandoli in modo originale, quasi a renderli – per restare tra i fornelli – non più “tracciabili”.

Prendiamo la pizza, autentico condensato di orgoglio identitario nazionale. Che, scopriamo, insieme al pane è uno dei cibi più antichi della storia, di cui vi è traccia nell’Eneide di Virgilio, almeno nella forma di piatta focaccia di farro, su cui viene sistemata la frutta (ma i troiani, in preda a una fame epica, finiscono per avventarsi e sbafare anche questa antenata povera dell’odierna “pizza bianca”, nata in forma di stoviglia…). Anche l’etimologia ci riporta in Grecia, alla “pita”, pane di grano che si consuma in tutto il bacino del Mediterraneo un tempo parte dell’impero bizantino, non troppo dissimile dal pane indiano “naan”.

E la pasta? Stando al più completo trattato geografico dell’antichità, il “Libro di Ruggero”, compilato nel 1154 dall’arabo Al-Idrisi alla corte del re di Sicilia Ruggero II, gli spaghetti vengono prodotti in gran quantità a Trabia, una cittadina sul Tirreno a una trentina di chilometri da Palermo, dove si sviluppa un fiorente export di vermicelli verso mercati cristiani e musulmani, settecento anni prima della rivoluzione industriale. Sono spaghetti ancora molto sottili, come conferma il termine arabo utilizzato da Al-Idrisi, “itryya”, di cui rimane traccia nella “tria” con cui ancora oggi, in Sicilia, si definiscono i capelli d’angelo.

Per l’identificazione tra pasta e italiani, bisogna però aspettare la prima guerra mondiale, quando gli austroungarici li adottano per prendere in giro i nemici. Lo storico e collezionista triestino Roberto Todero ha rinvenuto in val Travenanzes, vicino a Cortina d’Ampezzo, i resti di una tabella in legno che indica le posizioni italiane come Maccaroni, e vicino al rifugio Corsi, nel Tarvisiano, un cartello con scritto Spaghetti Stellung, “posizione spaghetti”.

1652, anno cruciale del prosecco, vino di baruffe per eccellenza. La sua prima citazione è nel poema eroicomico “L’asino”, di Carlo de’ Dottori, in cui si narra di una guerra tra Padova e Vicenza a colpi di cibo e vino. A un certo punto sul campo di battaglia irrompono i friulani, cui «’l bottigliere è lor sempre vicino/ con vino di Prosecco e cacio asìno…»: così, almeno, verseggia il letterato, con una confusione profetica tra le diverse comunità regionali.

Il prosecco si fa a Valdobbiadene, la località di Prosecco (quella “furlanizzata” dal De’ Dottori…) è sul Carso triestino: in mezzo ci sono 165 chilometri e la storia, molto attuale, di una “doc” allargata a dismisura da un ministro italiano, una doc ipertrofica che ingloba nove province tra Veneto e Friuli Venezia Giulia per rispondere allo scippo del tocai da parte dell’Ungheria e blindare le bollicine autoctone da ogni rivendicazione della Croazia, terra di “prosek”, e fresca entrata nell’Ue.

Marzo Magno ricostruisce con minuzia tutti i passaggi di questa disfida del vino, a colpi di glera e barbatelle, che si chiude con l’istituzione, nel 2013, del “poliziotto del prosecco”. Uno 007 delle bollicine autentiche, che sanziona fino a centomila euro i “tarocchi”. Di genio e di gusto.

Fonte: http://ilpiccolo.gelocal.it/cronaca/2014/04/15/news/nei-caffe-da-ordinare-al-bar-trieste-si-e-persa-il-macchiatone-1.9045943

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