Non chiamatela cerimonia del tè. L’espressione cha no yu è in realtà più prosaica e significa semplicemente «acqua calda per il tè». Fu un gesuita portoghese vissuto fra Cinque e Seicento, João Rodrigues, a impiegare per la prima volta il termine «cerimonia» per indicare quella che è la vertiginosa sofisticazione di un gesto quotidiano. È «l’atto di preparare e sorbire una tazza di tè che diventa una raffinata forma d’arte», è una «performing art basata sulla gestualità corporea», scrive Aldo Tollini in “La cultura del Tè in Giappone e la ricerca della perfezione” (appena edito da Einaudi, pp. 235, e 22), ricognizione storica e filosofica accompagnata da traduzioni di testi.
IL NERBO DELLA TRADIZIONE Cattedra di Lingua giapponese classica a Ca’ Foscari, Tollini spiega a la Lettura come oggi il cha no yu resti decisivo «per presentare al mondo l’unicità e il nerbo storico della cultura tradizionale nipponica: una forma d’arte che riunisce in sé molte forme d’arte, dalla ceramica alla pittura e alla poesia».
L’infuso di foglie di Camellia sinensis era approdato in Giappone dalla Cina, nel IX secolo era già noto in monasteri e corti e Myoan Eisai (1141-1215) ne avviò la diffusione.
ARMONIA E INCONTRO Fu l’intrecciarsi della cultura del tè con il buddhismo zen, anch’esso proveniente dalla Cina, e con la cultura feudale dei guerrieri (bushi) a dare spessore al cha no yu. Tra il XVI e il XVII secolo diventa forma d’arte e Via spirituale («zen e tè, stesso sapore», recita un antico detto), «e questo invece in Cina non era accaduto», aggiunge Tollini.
Non conta il gusto della bevanda. L’essenza sta nell’armonia tra ospitante e ospite, nell’incontro. Nella forma. Nel coesistere di «lentezza, sospensione del tempo, intensità, essenzialità».
La modernizzazione dell’epoca Meiji (1868-1912) privò i maestri del tè dell’appoggio dei signori locali che li finanziavano. Ci si rivolse dunque al popolo e le donne ebbero finalmente accesso al cha no yu, dal Medioevo esclusivo ambito maschile. Oggi — chiude Tollini — «a praticare sono al 90% donne». Ma forse non si tratta di un crepuscolo o di un tramonto: è soltanto una nuova trasformazione. (La Lettura, 11 maggio)Non chiamatela “cerimonia del tè”: è arte (e via spirituale)
Non chiamatela cerimonia del tè. L’espressione cha no yu è in realtà più prosaica e significa semplicemente «acqua calda per il tè». Fu un gesuita portoghese vissuto fra Cinque e Seicento, João Rodrigues, a impiegare per la prima volta il termine «cerimonia» per indicare quella che è la vertiginosa sofisticazione di un gesto quotidiano.
È «l’atto di preparare e sorbire una tazza di tè che diventa una raffinata forma d’arte», è una «performing art basata sulla gestualità corporea», scrive Aldo Tollini in “La cultura del Tè in Giappone e la ricerca della perfezione” (appena edito da Einaudi, pp. 235, e 22), ricognizione storica e filosofica accompagnata da traduzioni di testi.
IL NERBO DELLA TRADIZIONE Cattedra di Lingua giapponese classica a Ca’ Foscari, Tollini spiega a la Lettura come oggi il cha no yu resti decisivo «per presentare al mondo l’unicità e il nerbo storico della cultura tradizionale nipponica: una forma d’arte che riunisce in sé molte forme d’arte, dalla ceramica alla pittura e alla poesia».
L’infuso di foglie di Camellia sinensis era approdato in Giappone dalla Cina, nel IX secolo era già noto in monasteri e corti e Myoan Eisai (1141-1215) ne avviò la diffusione.
ARMONIA E INCONTRO Fu l’intrecciarsi della cultura del tè con il buddhismo zen, anch’esso proveniente dalla Cina, e con la cultura feudale dei guerrieri (bushi) a dare spessore al cha no yu. Tra il XVI e il XVII secolo diventa forma d’arte e Via spirituale («zen e tè, stesso sapore», recita un antico detto), «e questo invece in Cina non era accaduto», aggiunge Tollini.
Non conta il gusto della bevanda. L’essenza sta nell’armonia tra ospitante e ospite, nell’incontro. Nella forma. Nel coesistere di «lentezza, sospensione del tempo, intensità, essenzialità». La modernizzazione dell’epoca Meiji (1868-1912) privò i maestri del tè dell’appoggio dei signori locali che li finanziavano.
Ci si rivolse dunque al popolo e le donne ebbero finalmente accesso al cha no yu, dal Medioevo esclusivo ambito maschile. Oggi — chiude Tollini — «a praticare sono al 90% donne». Ma forse non si tratta di un crepuscolo o di un tramonto: è soltanto una nuova trasformazione. (La Lettura, 11 maggio)
http://leviedellasia.corriere.it/2014/05/12/non-chiamatela-cerimonia-del-te-e-arte-e-via-spirituale/