MILANO – Suggestioni e riflessioni sul work place del futuro: questo il tema trattato alla tavola rotonda organizzata da Nespresso. Insieme, pubblico e interlocutori hanno cercato di trovare la risposta alla domanda: vivere meglio il luogo di lavoro, aiuta ad esser più produttivi? La discussione è stata supportata dai dati. Esposti dai diversi partecipanti al dibattito: Stefano Goglio, direttore generale Nespresso Italia. Assieme a Max Cremonini, responsabile Content & Creative Accenture Interactive. Presente anche una donna, Anna Piacentini, Amministratore Delegato People. E infine, Stefano Boeri, architetto e urbanista, con Francesco Morace, sociologo e saggista.
Tanti quindi i punti di vista per affrontare il tema. A cominciare proprio da quello di Stefano Goglio.
Stefano Goglio dà il via alla presentazione
“Benvenuti. E’ un piacere vedere così tanti ospiti che hanno risposto positivamente a questo invito. Ci tengo a condividere con voi il motivo che ci ha portato qua. Ovvero il cambiamento importante che sta interessando il mondo del lavoro.
Gli uffici stanno mutando. E dove ci troviamo ne abbiamo un chiaro esempio. Gli spazi lavorativi si stanno modificando. Così come il modo in cui vengono intesi e vissuti dalle persone. –
Continua Stefano Goglio: – L’individuo torna al centro dell’ufficio. Esiste il back to office: un trend che abbiamo intercettato. E ci siamo chiesti innanzitutto se questo cambiamento portasse con sé anche un diverso modo di consumare il caffè.
Stefano Goglio, Nespresso è presente in diversi uffici da parecchi anni
Continua Stefano Goglio: “Proprio per questo abbiamo una posizione privilegiata dalla quale possiamo comprendere meglio cosa sta accadendo all’interno degli uffici. Oltre a questo, Nespresso ha già nel suo dna una spinta verso l’innovazione molto forte.
Per questo abbiamo decidere di fare una raccolta dati, dalla quale è emerso un quadro interessante.”
Due sui 3 caffè bevuti in media da una persona, durante il giorno, sono consumati nei luoghi di lavoro
Ancora Stefano Goglio: “Abbiamo quindi provato a capire che ruolo avesse questa bevanda. Perché, dal nostro punto di vista, il caffè è sempre stato visto come un momento di pausa. Qualcosa che interrompe il lavoro e ricarica per poter tornare a produrre nuove idee con rinnovata energia.
All’interno di questi spazi che cambiano il caffè, ha modificato un po’ questa sua funzione – dice Stefano Goglio
– Certo resta ancora centrale. Ma è arricchito da una componente più legata all’aggregazione. Il caffè ha ancora di più un ruolo sociale, di condivisione. Attorno alla tazzina, le persone scambiano le proprie esperienze e le idee. Approfondendo il racconto delle proprie vite lavorative e non.”
In linea con questo nuovo spirito, abbiamo creato Nespresso Momento
Prosegue Stefano Goglio: “Il lancio avviene oggi, durante la creazione di quesa tavola rotonda. Nespresso Momento non è solo una macchina per caffè. E’ proprio un modo nuovo per interpretare la pausa. Non più una semplice interruzione, ma qualcosa di più fluido.
Un momento in cui noi vogliamo portare la tecnologia, design e sostenibilità. E magari anche un’ambizione differente: ridisegnarlo. In modo da offrire un pretesto per le persone di continuare a vivere dei momenti importanti della propria esperienza lavorativa. All’insegna della condivisione, per stimolare la nascita di nuove idee. E così che possa aumentare anche la produttività e la creatività delle persone sul posto di lavoro.
Ringrazio quindi di nuovo tutti gli ospiti che hanno partecipato a questa tavola rotonda.”
Stefano Goglio lascia la parola a Max Cremonini
Che cos’è l’ufficio 3.0?
Max Cremonini: “Stiamo andando verso una direzione molto chiara. Che noi stessi abbiamo intrapreso con la nostra ricerca. Che rispecchia poi il nostro modo di affrontare questo tipo di indagini. Ovvero qualcosa che ha a che fare con l’umanità, piuttosto che con “l’impiegato”.
Mi piacciono molto le parole che sono state utilizzate fino ad ora: parliamo infatti di momenti vissuti dalle persone. Perché la tentazione, quando ci si riferisce ai luoghi di lavoro, è quella di etichettare le persone come impiegati o consumatori.
L’ufficio 3.0 invece, e in generale il momento di fruizione durante le pause, riguarda molto più le esigenze umane. Lo spazio lavorativo che stiamo vivendo oggi, ovvero il 2.0, è aperto. Al suo interno esistono delle dinamiche che sono però ancora molto controllate.
C’è lo smart working, il remote working. Per cui è possibile lavorare due giorni alla settimana da casa. Una modalità diversa rispetto al lavoro che segue degli orari ben definiti che dividono bene il momento dell’ufficio da quello casalingo.
Questi meccanismi, da quanto è emerso dalla nostra indagine qualitativa, non soddisfano a pieno le ultime esigenze delle persone. Perché hanno il bisogno di ritornare in ufficio: uno che però funga anche da Hub. Intorno al quale i dipendenti gravitano. E si ritrovano dentro nel momento in cui devono recuperare un’occasione di scambio con i colleghi.”
L’ufficio 3.0 è uno spazio ancora più aperto
Ancora Max Cremonini. “Dove gli ambienti, il modo di lavorare, le strutture e la tecnologia, sono a servizio di una modalità diversa di vivere il lavoro. Non pone più confini tra lo spazio lavorativo e quello domestico.
Si sta andando in questa direzione più o meno velocemente. Ciò comporta una serie di aspetti complessi da curare. Come nella gestione delle risorse.
Per questo abbiamo intervistato persone che afferiscono a diversi ambiti. Dagli architetti, a chi gestisce le operazioni nelle grandi aziende. Perché gli impatti in prospettiva saranno molto ampi. Ma sempre mantenendo al centro la persona più che l’impiegato e le sue attività.”
Il presentatore chiede: ma lo spazio influisce così tanto sulla produttività?
Stefano Boeri. “Abbiamo vissuto un periodo complicato nella rappresentazione degli spazi di lavoro. Questo perché era come se ci trovassimo coinvolti da due spinte apparentemente opposte.
Una è il remote working. Che quindi in previsione, avrebbe svuotato gli uffici. Lavorando da casa o nelle caffetterie. L’altra invece è quello di uno spazio più ricco di funzioni di norma eterni al luogo di lavoro. Quindi sono stati inseriti dei momenti per l’intrattenimento, di gioco, per favorire lo scambio.
Quindi da un lato l’ufficio si svuota. Dall’altra invece si arricchiva di pratiche quotidiane che normalmente venivano svolte al di fuori del posto di lavoro.”
La prevalenza ultimamente sembra sia quella della seconda soluzione
Continua Stefano Boeri. “Ovvero, mi sembra di poter dire per esperienza personale, gli uffici ormai hanno rotto le linee temporali che dividevano l’ingresso dall’uscita. Nel posto in cui lavoro, su 4 piani, abbiamo creato addirittura nelle scale degli spazi di incontro. Qui ci fermiamo a parlare e spesso le idee migliori scaturiscono proprio quando non stiamo seduti. E’ quindi assolutamente vero che si lavora dialogando.
Ma è proprio questo che definisco un carattere del lavorare italiano. Non dobbiamo mai dimenticarci che, ad esempio, la moda e il design nascono da incontri che hanno una dimensione affettiva e relazionale fortissima.
Non è semplicemente uno scambio di competenze e prestazioni. Diciamo quindi che un ufficio che contiene degli spazi di condivisione e relax, per lo sport e tempo libero che dura magari 24 ore con l’apertura, diventa un luogo in cui si ritorna per sperimentare altro. Questo è l’ambiente che forse più rappresenta il futuro.”
Quali sono i desideri reali delle persone?
Max Cremonini riprende la parola. “Noi li abbiamo anche riassunti all’interno della ricerca. Sicuramente prevale lo human touch. Ovvero una dimensione fisica che favorisce l’interazione umana e l’espressione dell’individualità.
Ce ne sono altre: il 44% delle persone negli uffici, ritiene che un corretto work-life balance sia un elemento importante da valutare per restare o cambiare posto di lavoro. La possibilità quindi del corretto bilanciamento tra vita lavorativa e vita privata è un fattore che determina la scelta.
Fino a poco tempo fa si guardava più alla monetizzazione e ai benefit. Oggi invece anche questo fatto fa la differenza. Così come la possibilità di poter usufruire di spazi di socializzazione come l’esempio delle scale di prima.
Un altro tema è quello del benessere. C’è molta attenzione da parte delle aziende su questo punto e il suo impatto sulle persone che lavorano al suo interno.
Questo quindi si trasforma anche in termini di branding. Perché i primi che poi raccontano l’azienda sono coloro che la vivono dall’interno. E’ ormai vero che il branding non procede più con una campagna digitale e televisiva, ma attraverso le esperienze delle persone. E quindi è giusto affermare che i primi narratori sono proprio i dipendenti.
Per cui, se il posto di lavoro non è ben bilanciato, la qualità degli spazi e l’attenzione alle esigenze dei lavoratori non sono al primo posto, la reputazione del brand ne risente.
E’ strumentale ovvio, avere dei lavoratori che tornino a vivere gli spazi in maniera funzionale, senza lasciare inutilizzati gli spazi. Ma è altrettanto vero che i primi brand ambassador delle aziende sono le persone che vivono negli uffici.”
Anna Piacentini: si può educare al benessere sul posto di lavoro? La felicità è da mettere nel contratto?
Prende la parola Anna Piacentini. “Assolutamente sì. Il lavoro che stiamo portando avanti noi si concentra proprio su questo aspetto. Le ricerche affermano che le persone sono felici sul lavoro quando instaurano ottime relazioni. E quando si sentono valorizzate.
Deve esserci una coerenza valoriale tra ciò che sentono e ciò che muove l’azienda. Nell’ottica appunto di trasformarsi in degli ambassador. Ed esser i dipendenti i primi a percepire un rapporto di fiducia con l’azienda.
Infatti nel modello su cui stiamo lavorando per molte aziende che si stanno avvicinando a questo tema, è la convergenza tra fiducia e significatività del proprio lavoro. Questo perché, concentrarsi esclusivamente sul secondo punto, provoca un focus eccessivo sulle performance. Trascurando così l’importanza dello spazio relazionale.
Allo stesso tempo, se ci si concentra sul primo aspetto, si creano altri tipi di squilibri.
Entrambi, fanno parte delle esigenze dei lavoratori.
Questo è emerso con forza quando, il fatto di condividere delle esperienze coi colleghi, con un trasferimento di conoscenze, è stato indicato come uno dei fattori che determinano la felicità sul posto di lavoro.
Per cui, creare un ambiente professionale che favorisca questa interazione porta a dei risultati positivi.”
Il caffè quindi, dalla vostra indagine qualitativa come appare? E’ solo una pausa?
Riprende la parola Max Cremonini. “Dall’indagine è emerso che cos’è attualmente il caffè e che cosa dovrebbe essere secondo i desideri delle persone.
Un bisogno di un salto di qualità rispetto al consumo dei prodotti disponibili. C’è la necessità di premiumness: le persone dicono chiaramente ad esser disposti a pagare il caffè in ufficio pur di avere una bevanda più di qualità.
Spesso emerge che in questo momento, si cerca più di una pausa un modo per ripartire.
Da qui il concetto cardine che si trasforma: smettere di utilizzare l’espressione “pausa caffè”. Il caffè è una metafora: ha travalicato il suo senso letterale per indicare un’esperienza di socialità.
L’idea della pausa caffè è un po’ obsoleta. Invece, come esperienza che va oltre l’esperienza sensoriale ma sociale, ha il giusto significato. E’ un ritorno al nido, per riavviare le attività che potenzialmente sono non stop.
Riunirsi attorno alla metafora del caffè, è ritrovare un’unità e un punto di partenza.
Il tema della serenità in azienda è fondamentale. Unito al fatto che oggi, quando si riprogetta l’esperienza dentro un posto di lavoro, non è possibile prescindere dal ripensamento degli spazi.
Rispetto alle ricerche che abbiamo fatto, è emerso che il 93% delle aziende che affermano che il clima interno è il Kpi fondamentale. Come poi questo venga articolato oggi, è ancora tutto da esplorare.
Ma è comunque un dato che viene fuori in maniera molto forte.
Dall’altra parte, il 47% delle aziende dicono che, nel momento in cui pensano allo smart working, devono ripensare gli spazi. Questo cambiamento per garantire agli uomini una maggiore serenità, alla fine porta a un aumento di valore.”
Per un architetto cosa significa la parola serenità? Come la disegnerebbe?
Stefano Boeri risponde. “C’è una strana evoluzione anche nel modo di lavorare negli uffici, dove si svolgono compiti creativi. Qui c’è una sorta di solitudine interconessa: io entro in una bolla che però può entrare anche in contatto con altre persone, attraverso le reti materiali. Allo stesso tempo esiste un momento fondamentale di solitudine e serenità che attiene a una certa fase della creatività Che può esser fatto solo dal creativo. Da solo.
Poi c’è l’oscillazione fortissima dell’interazione fisica e sensoriale. Quindi gli spazi di lavoro devono favorire. Devono essere dei luoghi di interazione in tutta la loro imprevedibilità. Quando non si è soli si è più sereni.”
Il caffè è un gesto individuale che però ha un’eco sociale: prendere un caffè non è solo prendere un caffè
Interviene Francesco Morace. “Nessuno tra coloro che mi ha invitato forse sa che sono napoletano, e che quindi secondo me, manca un qualcosa in questa discussione. Condivido molti punti emersi fin qui, ma ancora è rimasta fuori l’idea della tazulella e’ caffè.
Il caffè è un mondo a parte che andrebbe lasciato un po’ intoccato. Senza analizzarlo troppo. Esiste un aspetto di rituale, segreto, che in realtà l’Italia non ha mai perso.
Tutti noi sappiamo, anche nelle grandi aziende, noi italiani prendiamo le decisiamo al di fuori dalle riunioni. Nei momenti di pausa. Questa cosa si ricongiunge al principio dello human touch. Il caffè è quell’elemento che ci ricorda che, l’intelligenza artificiale sarà sempre più presente e noi dobbiamo preservare l’aspetto più istintivo e umorale che ancora sfugge alla comprensione.
Mi viene in mente a questo proposito l’espressione: metti in pausa la macchina e quella smette di funzionare. Metti in pausa una persona, e inizierà a ragionare.
Il caffè significa proprio questo. Rappresenta un momento individuale o di scambio, come il caffè sospeso di Napoli. La cultura di questa bevanda, sottolineata proprio da Nespresso, nonè catalogabile come ognuno di noi. Che viviamo momenti unici.
Noi ricominciamo a ragionare tra smart working e vita di ufficio che per fortuna si stanno bilanciando. I dati lo confermano. Un tempo, negli anni 80, si parlava del cottage working, che prevedeva un lavoro completamente da casa. Non accadrà mai totalmente. Perché non si riuscirà mai ad abbandonare l’idea della condivisione, di quel momento attorno al caffè che poi è il vero carburante del futuro.
L’intelligenza artificiale non guiderà il futuro
Ancora Morace: “Speriamo che non sia guidata dalla stupidità umana. Ma soprattutto, capiamo che vinceremo se svilupperemo tutto ciò che l’intelligenza artificiale non potrà mai sostituire. Ci batterà a schacchi per sempre, ma dall’altra le attività di sensibilità del mondo del lavoro non sarà mai riproducibile. Come l’incontro sulle scale. Bisogna lavorare sugli aspetti di “iperuranio” piuttosto che sullo schiavo dell’intelligenza artificiale.
Da questo punto di vista c’è del lavoro da fare non solo sul caffè.”
C’è il momento, una situazione o uno spazio ideale per bere il caffè?
Anna Piacentini risponde: “Tutte le volte che noi abbiamo una riunione in ufficio al mattino, la prima cosa che facciamo è proprio il caffè. Perché è un momento conviviale in cui le persone si incontrano realmente. E possiamo partire liberi dallo stress dell’accelerazione. Questo aiuta a creare un clima ideale per iniziare con il lavoro.”
Max Cremonini: “Analogalmente anche nel mio quotidiano, il momento coincide con la mattina. Siamo italiani e quindi il caffè è il risveglio della coscienza. Se vogliamo poi si tratta di un momento intimo e metaforizzabile. Al suo interno avviene uno scambio di confidenze, in cui ci si vuole incontrare per guardarsi negli occhi.
Una cosa sempre più difficile nel mondo di oggi, sempre più connesso digitalmente. Le persone, soprattutto sul posto di lavoro, quando si tratta di esprimere la creatività che ci contraddistingue, c’è la necessità di guardarsi negli occhi.
Per discutere nel bene o nel male. Spesso questo avviene di fronte a una tazza di caffè.”
La risposta di Morace: “Per me il caffè è un vero e proprio palinsesto. La media dei mie caffè è di 7/8 al giorno. Ognuno di questi, come quello di oggi, ha un suo rito di riferimento. Il primo di risveglio per affrontare la fatica con una ricarica di energie. Poi c’è quello del saluto dei colleghi. Ogni momento insomma, appartiene a un’occasione diversa con il caffè.
Questo è utile anche in termini di marketing. Nel futuro dovremmo far convivere lo slow con il fast. Ognuno di noi è autore delle proprie modalità di consumo e così ci si costruisce il personale palinsesto. E il caffè aiuta a renderlo più fluido. Più interessante anche dei nuovi stili di lavoro.
Allontaniamoci dall’idea che ci siano spazi che siano dei manuali della progettazione. E’ importante riuscire ad alternare momenti di solitudine e convivialità: basta che non sia imposto da qualcun altro.”
Boeri: “La retorica della camera caffè si è evoluta dallo spazio dedicato alla pausa caffè. La cialda è stato un elemento fondamentale per estendere questo ambiente. Io non ho un vero rituale in particolare. Bevo il caffè spesso, in tutti i tipi di situazioni. E’ quasi una presenza più che una pausa. E’ un’appendice al tempo di lavoro, che è ormai un momento di incrocio di diverse esperienze.”