MILANO – Starbucks sarà un successo o un fallimento? Un pericolo o un’opportunità? E l’idea di portare palme e banane nel cuore di Milano? Buona o cattiva? Se lo chiede Aldo Cazzullo, una delle firme più note del Corriere della Sera, nella rubrica Lo dico al Corriere.
Lo fa rispondendo alla caterva di lettere e mail giunte in redazione in questi ultimi giorni, che riflettono idee divise e umori molto diversi.
Ecco, di seguito, alcuni dei commenti dei lettori. Seguiti dalla risposta di Cazzullo.
“Che vergogna Starbucks, il mondo ride dell’Italia”. [Giulio Di Giacomo]. “Questa crociata contro Starbucks è ridicola”. [Cristina Scaletti] “Il discorso è semplice: Starbucks con l’Italia non c’entra nulla”. [Carlo Amiconi] “Come sempre, il mercato deciderà se la scelta è vincente o meno. Nel mentre, chi ci vuole andare da Starbucks andrà (come me), e chi no non ci andrà. L’Italia è piena di McDonald’s, ma i ristoranti e le pizzerie non ne hanno risentito”. [Frank Lesì].
Da giorni sono inondato di messaggi contro le palme di piazza Duomo, quasi tutti negativi. È passata in secondo piano quella che a me pare la vera questione: lo sbarco di Starbucks, che delle palme è sponsor.
In linea di massima sono favorevole alle nuove iniziative, a maggior ragione se creano posti di lavoro. Ma l’apertura in Italia di Starbucks come italiano la considero un’umiliazione.
Perché Starbucks è il più clamoroso esempio al mondo di Italian Sounding: di prodotti che suonano italiani, ma non lo sono.
In tutto il pianeta, a cominciare dalla casa madre americana, il menu è scritto in italiano, dall’espresso al cappuccino.
Ma non è caffè italiano, non è lavoro italiano. Sui pacchi in vendita c’è scritto «Caffè Verona», e in piccolo si precisa: «Made in Seattle».
I veri produttori italiani, da Illy a Lavazza, hanno tentato di rispondere aprendo le loro catene; hanno ottenuto qualche successo, ma non hanno le dimensioni per competere.
Frank Lesì ha ragione: deciderà il mercato; che non si ferma certo con il proibizionismo.
È vero, i fast food in Italia esistono ma non hanno messo fuori mercato i locali tradizionali; a Roma ad esempio il vero fast food è la pizza al taglio.
Sono convinto che, pur essendo il popolo più esterofilo, gli italiani continueranno a preferire il tradizionale espresso in tazzina rispetto a quello nei bicchierini di plastica.
Starbucks rappresenta una filosofia, oltre che una sorta di ufficio per chi un ufficio proprio non ce l’ha; forse anche i nostri bar diventeranno più ospitali. Sono però curioso di vedere quanti dei 350 posti di lavoro annunciati a Milano andranno a giovani italiani, e quanti a giovani immigrati.
Aldo Cazzullo