MILANO – Nel 2014 Eugenio D’Alessio ha pubblicato sul portale cinquecolonne.it questa analisi sul fenomeno Starbucks e sulla mancanza di locali della sirena in Italia. L’abbiamo tenuta in archivio certi che la situazione sarebbe finita. E lo sarà il prossimo 7 settembre con l’apertura del primo locale, che sarà addirittura una Reserve Roastery, la terza al mondo e l’unica in Europa. Tuttavia molti dei temi sviluppati in questa analisi sono ancora validi.
Ve li proponiamo.
Starbucks è una famosa catena internazionale di caffetterie nata nel 1971 a Seattle, negli Stati Uniti. La sirena, il suo simbolo, occupa il 31° posto nel ranking 2014 di Millward Brown dei 100 marchi più noti al mondo. Mentre leggete Starbucks ha già superato quota 20mila punti vendita distribuiti in 65 Paesi, per un totale di 182mila dipendenti. Nel 2013 ha fatturato 14.9 miliardi di dollari, il 12% in più dell’anno precedente.
Starbucks va bene in America, molto bene in Asia, ma non esalta in Europa. Nel Vecchio continente il marchio è presente quasi ovunque, ad eccezione di alcune nazioni. Tra queste c’è l’Italia.
Perché?
Se ne discute da tempo, e le ipotesi sono diverse. Una delle più ricorrenti, che si potrebbe definire “culturale”, sottolinea l’eccessiva distanza tra il prodotto offerto da Starbucks – il classico americano, ma non solo – e il modo in cui gli italiani concepiscono il caffè.
Caffè diversi più o meno in tutto: formato, sapore, ma anche nei tempi e negli spazi, riempiti da parentesi di socialità provenienti da storie molto diverse. Starbucks, da parte sua, non ha escluso in maniera definitiva l’ipotesi Italia.
Al contrario: Howard Schultz, l’attuale amministratore delegato della società, in un’intervista concessa l’anno scorso alla CNN alla domanda “Ci sarà mai Starbucks in Italia?” risponde:
“Starbucks ci sarà in Italia, prima o poi […] ma considerati i problemi politici ed economici della nazione non credo sia la priorità per i nostri azionisti”.
Nella parte finale della risposta Schultz lo ribadisce: Starbucks ci sarà, prima o poi. Per l’imprenditore statunitense ci sono ragioni primariamente economiche.
Del resto, molto prima di quell’intervista, nel 2002, Schultz aveva già espresso il proprio interesse verso due nuovi mercati: quello francese, nel quale si è stabilito nel 2004, e quello italiano.
Un messaggio chiaro, ripreso poi in maniera inequivocabile nel 2006 dallo stesso Schultz, ospite del giornalista americano Kai Ryssdal alla trasmissione radiofonica Marketplace: “We want to go to Italy”; aggiungendo, “Non abbiamo finora considerato il mercato italiano come abbiamo fatto con altri casi, ma ad un certo punto lo faremo”.
Precedenti simili
Vista così, la spiegazione “culturale”, che vorrebbe dire un’eccessiva presenza di competitor italiani (i bar), potrebbe avere ragione solo entro certo limiti. Cioè, il caffè di Starbucks potrebbe rimpiazzare l’espresso?
No, l’ipotesi sembra improbabile. Potrebbe accadere altro, però: che i due prodotti non entrino in competizione tra loro. Una parte delle ultime generazioni italiane è sempre più integrata, connessa, in viaggio, trasferita, in Europa e nel mondo, e sta acquisendo nuovi gusti e abitudini che non necessariamente scalzano quelli precedenti.
E’ vero: americani e britannici, tra gli altri, concepiscono quello di Starbucks come “il caffè”. Ma noi no, e del resto anche l’approccio ai fast food, distanti dalle nostre tradizioni alimentari ma affermatisi ovunque, ha osservato una dinamica simile, cioè non sostitutiva: da un sondaggio del 2012 è emerso che il 39% degli intervistati non si reca quasi mai in un fast food, mentre la restante parte lo fa almeno una volta al mese.
Per avere un’idea, nelle città del Regno Unito i giovani (25-34 anni) mangiano al fast food/take away fino a 25 volte al mese. Insomma, l’hamburger non ha sottratto spazio alla tavola italiana – che resta forte e di qualità – ma ne ha ritagliato uno proprio, altrove.
Il caso
Forse potrebbe accadere qualcosa di simile con il caffè (e con il resto: cappuccini, frappé, dolci, biscotti). D’altra parte in viaggio quanti italiani – e quante foto su Facebook – si vedono negli Starbucks d’Europa? Un numero consistente, difficile da spiegare con la semplice assenza dell’espresso di casa.
Difficile, anche, spiegare la presenza degli american bar che di recente hanno aperto in una delle patrie del caffè, Napoli: davvero simili al più celebre Starbucks. Lì gli studenti universitari scambiano gli appunti mentre chiedono la password del wi-fi. Fuori, intanto, ci sono cento e più bar: chiedono, servono e ricominciano. A lei il macchiato; qui invece erano tre giusto? E non si fermano mai.