Lidia Baratta*
Addentare il quarto, quinto, sesto quadratino non sarà più la stessa cosa. Il mondo del cioccolato è diventato un Fight Club. Gli agricoltori producono meno cacao di quanto continuiamo a mangiarne. Il prezzo sale.
E tre grandi multinazionali, Barry Callebaut, Cargill e Olam, si stanno spartendo una torta gustosissima, monopolizzando come Big Tobacco (il Financial Times ha parlato di Big Chocolate) fa con le sigarette la produzione dei nostri piccoli grandi peccati di gola.
Willy Wonka al quadrato, anzi al cubo, sempre più forti in un mercato che sta affrontando non pochi cambiamenti. Il primo problema è che il cioccolato nel mondo è sempre di meno rispetto alla domanda.
Perché ne mangiamo troppo e sempre di più. Tutti quanti, nessuno escluso. E la cosa rischierebbe di sfuggirci di mano. Non tanto per i chili di troppo, quanto perché lo scenario che ci si prospetta davanti è quello di scaffali del supermercato mezzi vuoti. Senza barrette, praline e tartufotti ogni volta che ne abbiamo voglia. O almeno questo è quello che è venuto fuori dal report annuale della Barry Callebaut, non dei tipi qualunque, ma tra i più grandi produttori di cioccolato al mondo. Nel documento si parla del «rischio di carenza di cioccolato entro il 2020».
Lo scorso anno, secondo i cioccolatieri svizzeri, la popolazione mondiale avrebbe già mangiato più o meno 70mila tonnellate in più di cacao di quanto ne abbia prodotto. A dicembre 2013, per la produzione di cioccolatini si sarebbe cominciato a raschiare il fondo delle riserve mondiali.
E il consumo in eccesso rispetto alla produzione entro il 2020 potrebbe crescere fino a un milione di tonnellate, raggiungendo addirittura i due milioni entro il 2030. Da Barry Callebaut, in realtà, poi hanno rivisto al ribasso le previsioni catastrofiche, dicendo che forse il gap tra domanda e offerta potrebbe essere più ridotto.
In ogni caso, la domanda di cioccolato sta crescendo. Soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, dal Sud America all’Asia, dove la classe media comincia a spendere di più per l’alimentazione concedendosi qualche leccornia. In Cina, in particolare, negli ultimi dieci anni le vendite di cioccolato sono più che raddoppiate, crescendo più velocemente di quelle dei principali consumatori di cacao al mondo. L’Europa resta il mercato principale, con Germania e Regno Unito in testa, seguiti da Nord America e Asia.
Ma i pericoli del mondo di Willy Wonka si annidano soprattutto nella produzione del cacao. Gli alberi di cacao, l’ingrediente base del cioccolato, possono crescere solo in una cinta a pochi gradi di latitudine dall’Equatore. In Costa d’Avorio e Ghana, veri paradisi del cioccolato, viene prodotto più del 70 per cento del cacao mondiale da più di 2 milioni di piccole aziende agricole a conduzione per lo più familiare. Ma è proprio qui che la produzione delle fave è calata a picco sia per la carenza di piogge e la siccità crescente, sia per la diffusione dell’Ebola.
E a questo si è aggiunta anche una malattia fungina (la frosty pod) che da sola ha spazzato via tra il 30 e il 40 per cento della produzione globale di cacao. Tanto che molti agricoltori africani hanno preferito virare verso produzioni più redditizie, come il mais e la gomma. D’altronde coltivare il cacao in Africa non rende i contadini più ricchi. Quello che rende ricchi è trasformarlo in cioccolato e venderlo in giro per il mondo: ed è ciò che fanno le grandi multinazionali di Big Chocolate.
Non va meglio nemmeno in Indonesia, terzo produttore al mondo di cioccolato. Nonostante i grossi investimenti governativi nel settore, anche qui gli alberi sono stati colpiti da un particolare tarlo del cacao. Otto anni fa la produzione era di 600mila tonnellate all’anno, ora non arriva neanche a 500mila.
E così anche loro importano le fave della costa d’Avorio per soddisfare la domanda interna, che cresce a un ritmo del 20% (in base ai dati dell’Indonesian Cocoa Industry Association). Non a caso Cargill, Barry Callebaut e Olam hanno già messo gli occhi sul Paese per spartirsi i processi industriali di trasformazione delle fave di cacao.
Al deficit di cioccolato contribuisce anche la crescente popolarità del cioccolato fondente ed extrafondente, più adatto alle diete ipocaloriche e salutiste, che contiene però più cacao delle normali barrette in circolazione: una tavoletta normale contiene in media circa il 10% di cacao, una di cioccolato fondente o extra fondente ne contiene spesso più del 70 per cento.
Il gap tra domanda e offerta, secondo l’International Cocoa Organization, potrebbe durare almeno fino al 2018. Anche se le riserve mondiali di cacao, assicurano dall’Icco, non dovrebbero portare a scenari catastrofici come gli scaffali dei supermercati senza barrette e ovetti. I prezzi però sono destinati a crescere. Solo lo scorso, anno il prezzo del cacao alla produzione è cresciuto del 24%, raggiungendo i 2,77 dollari a tonnellata. Dal 2012 in poi, quando il mondo ha cominciato a mangiare più cioccolato di quanto se ne produca, nei mercati si è registrato addirittura un più 60 per cento. E i produttori hanno aggiustato di conseguenza i prezzi degli snack, uno dopo l’altro, a partire da Hershey.
Le vendite, queste sono le previsioni di mercato, in ogni caso continueranno a crescere. Diventando sempre più prezioso, è ovvio che il cacao fa gola a tanti. Non solo a noi poveri consumatori di cioccolatini da divano. Ma soprattutto alle grandi multinazionali della trasformazione delle fave comprate nell’Africa Occidentale. Nomi che forse non conosciamo perché questi marchi non si trovano direttamente negli scaffali dei supermercati.
Ma sono loro che gestiscono e decidono le sorti del cioccolato mondiale. Il settore è dominato da tre grandi colossi, quelli che il Financial Times ha chiamato Big Chocolate: la svizzera Barry Callebaut, che fornisce il cioccolato a nomi come Mondelez, Hershey e Unilever, l’americana Cargill e la Olam International Limited di Singapore, catapultata nella premier league del cioccolato dopo l’acquisto del comparto della trasformazione del cacao della Archer-Daniels-Midland Co. (ADM) per 1,3 miliardi di dollari.
Sono questi i grandi nomi che trasformano le fave di cacao in burro, polvere e liquori, usati poi da altre multinazionali per produrre cioccolatini, snack e dessert. Un settore diventato sempre più concentrato nelle mani di pochi, a suon di acquisizioni e fusioni dirette a controllare le diverse fasi della vita del cioccolato. Così i piccoli cioccolatini via via sono diventati delle grandi torte glassate.
Tutto è cominciato quando l’industriale del cioccolato belga Callebaut nel 1996 ha acquisito la francese Cacao Barry. All’inizio degli anni Novanta il settore se lo spartivano più di 40 nomi. In soli dieci anni questo numero si è ridotto a nove, con ADM, Barry Callebaut e Cargill che dominano il settore da sempre.
Formando la temutissima “ABC” del cioccolato. Secondo la United nation Conference on Trade and Development, nel 2006 le tre grandi “Fabbriche di cioccolato” coprivano da sole il 41% della capacità di trasformazione mondiale delle fave di cacao.
Così, mentre noi ci leccavamo i baffi dopo una cioccolata calda, i tre Willy Wonka del cioccolato si leccavano i baffi conquistando sempre più larghe fette di mercato. ADM e Cargill, poi, negli anni Novanta cambiarono del tutto il mondo del commercio e della lavorazione del cacao riuscendo anche ad acquisire il controllo del commercio delle stesse le fave di cacao. Da allora le compagnie più grandi divennero sempre più potenti. Nel 2013, poi, Barry Callebaut acquisì il settore della lavorazione del gruppo asiatico Petra Foods, consolidando la sua posizione attorno al tavolo dei grandi del cioccolato.
Nella catena di montaggio, prima di arrivare alla scatola di cioccolatini, i tre grandi commercianti e trasformatori di cacao a loro volta devono vedersela con quelli che poi producono ovetti e snack. Anche questo secondo strato della torta se lo spartiscono in pochi. Le multinazionali dominanti sono cinque: Mars, Mondelez, Nestlé, Miji Holdings e Ferrero. Con le prime tre che “si mangiano” il 65% delle vendite dei prodotti confezionati.
Ma un mercato così concentrato, che punta tutto sul marketing, sulla costruzione dei brand e la ricerca di nuovi prodotti da lanciare in tv (secondo Ecobank, il 70% del valore delle barrette di cioccolato è rappresentato dagli investimenti in ricerca e sviluppo e marketing), continua ad avere alle spalle un comparto di coltivatori allo stremo.
Ai contadini, secondo Ecobank, oggi arriva solo il 6% del valore di una barretta di cioccolato, mentre nel 1980 si raggiungeva anche il 16 per cento.
Eppure senza quei coltivatori africani, anche il più potente dei Willy Wonka non avrebbe più la sua fabbrica di cioccolato. Le multinazionali dovranno pensare per forza a progetti di supporto dei contadini per rendere più “sostenibile” la produzione delle fave di cioccolato, fornendo loro migliori pesticidi e fungicidi e incentivandoli economicamente a non convertirsi ad altre coltivazioni più semplici.
L’alternativa per continuare a soddisfare la domanda mondiale crescente potrebbe essere ridurre il contenuto di cacao nei prodotti che arrivano nella grande distribuzione. Ma i nostri peccati di gola non avrebbero più lo stesso sapore.