MILANO – Andrea Sonnino, Presidente della Federazione italiana dottori in agraria e forestali (Fidaf), ha partecipato alla seconda tavola rotonda che ha composto il workshop di lancio del Master Caffè a Roma Tre: il suo intervento porta un titolo che comprende due mondi vastissimi “Caffè e sostenibilità”. Abbiamo esplorato questi due temi collegati sempre più di recente, fortunatamente, con il professore.
Sonnino, l’argomento è piuttosto ampio e ancorché complesso: che cosa è in poche parole, un caffè sostenibile?
“Quello del caffè sostenibile è un concetto che è sempre più diffuso in questi ultimi tempi. Un caffè sostenibile è una bevanda per la cui produzione non si usano risorse ambientali, naturali, sociali, economiche, maggiori di quelle che possono esser rigenerate. La sua produzione non deve inficiare quella di alimentari nel futuro.
Sia le risorse naturali che le condizioni di vita delle popolazioni che sono all’origine del chicco, devono esser tutelate nel processo. Sui giornali si legge spesso che la ditta X offre “caffè sostenibile”, ma bisognerebbe fare un’analisi del metodo di produzione per comprendere se lo è effettivamente.”
Ma la sostenibilità fa parte di un sistema che deve funzionare organicamente: come si può agire su tutta la filiera (per altro davvero frammentata e lunga)
Sonnino: “Questo è l’aspetto più importante. Perché la filiera è asimmetrica: è formata da due estremità che sono frammentate. Ovvero i produttori che sono decine di migliaia e sono molto piccoli, e poi dall’altro capo i consumatori, che sono miliardi e ognuno di questi consuma ovviamente pochi chili di caffè all’anno, se non meno. A metà tra i due si trova un collo di bottiglia: il numero di entità che agiscono nel commercio internazionale del caffè verde è molto basso e sono queste poche figure ad avere un potere di contrattazione sia nei confronti di chi produce che di chi consuma, sproporzionato.
Non c’è un equilibrio possibile in questo contesto. Credo che i problemi complessi necessitano soluzioni altrettanto complesse. Metter in contatto le due estremità della filiera, bypassando il collo di bottiglia, è sicuramente una soluzione. Perché i consumatori devono esser consapevoli di ciò che bevono, dei sacrifici, delle spese che comportano per produrre ciò che acquistano. Dall’altra parte, gli agricoltori devono avere una forza negoziale molto maggiore rispetto a quello che hanno attualmente. Questo è un primo passo essenziale. “
Sonnino, è da tanto che si è cominciato a parlare di caffè e sostenibilità?
“E’ un problema che ci si pone sicuramente da diversi anni: certo la percezione da parte del grande pubblico nei confronti di queste tematiche si è accresciuta ultimamente. Prima se ne parlava in qualche circolo ristretto e ora invece la sensibilità si è allargata fino a coinvolgere grandi aziende di caffè.”
Oggi le aziende si stanno attivando concretamente su questo campo, oppure sono più quelle che fanno operazioni di greenwashing?
“Non bisogna demonizzare sempre tutto e comunque. Sicuramente il fatto che le aziende mostrino più o meno a parole un certo grado di sensibilità verso questi temi prima di tutto, è un indicatore della percezione del pubblico: i consumatori ritengono questo aspetto importante e quindi le imprese intercettano questa tendenza.
Un secondo aspetto è invece costituito dal fatto che la sostenibilità è valutabile, misurabile, quindi può esser gestita: è possibile attraverso diversi metodi, il più usato è LCA (Life Cycle Assestment). Per cui oggi si è in grado di certificare l’impegno concreto di un’azienda al di là del testimonial scelto per il marketing.
L’importante è capire che non sempre il consumatore è in grado di capire il tipo di certificazione. Per questo va indagato un modo semplice di comunicare questa documentazione. Serve un indicatore chiaro per identificare il livello di sostenibilità dietro a un prodotto per orientarsi nella scelta.”
Sostenibilità ambientale e sociale: come si può raccontare l’impatto del chicco su questi due fronti?
“Si può raccontare comunicando al consumatore che quando va al bar e ordina un espresso a un euro, solo un centesimo va a chi ha prodotto il caffè e il restante 99% a tutti quelli che stanno in mezzo. Dato che a coltivare il chicco, in genere, sono piccoli agricoltori nella maggior parte poveri, circa 20 milioni da cui dipendono circa 200 milioni di persone che lavorano nella filiera in circa 70 Paesi, il problema della protezione della qualità della vita e del benessere sociale di chi è all’origine sono fondamentali per la sostenibilità del caffè al pari di quella dell’ambiente. Uno dei 5 elementi che la Fao ha indicato su questo
tema è l’equità dei sistemi alimentari e su questa dovrebbe ricadere una maggiore enfasi.”
Sonnino, il consumatore finale quanto percepisce il problema della sostenibilità?
“Il consumatore finale lo percepisce ancora poco: la percezione è un po’ sbilanciata sulle questioni ambientali più che su quelle sociali. Bisogna lavorare tanto, ancora, migliorare questa consapevolezza e incoraggiare i consumatori a fare scelte per far evolvere la filiera.”
Cosa si può fare per raggiungere l’obiettivo di una filiera rispettosa dell’ambiente e delle condizioni dei coltivatori all’origine?
Conclude Sonnino: “Ho già citato i 5 principi della Fao e tornerei su questi: la gestione efficiente delle risorse agricole (acqua fertilizzanti e lavoro); protezione delle risorse naturali, suolo, acqua e biodiversità; protezione del livello di vita rurale e del benessere sociale; resilienza nei confronti dei cambiamenti climatici, della volatilità dei prezzi e dell’insorgenza di patogeni e parassiti; tutti questi elementi possono esser applicati solo se esistono dei sistemi di governance locali e nazionali efficaci.
Un aspetto particolarmente importante è quello della ricerca e dell’innovazione. Coniugare le acquisizioni scientifiche con il sapere esperenziale permette di adottare l’innovazione che può migliorare la gestione in campo, dei residui, delle acque reflue. Sono tanti aspetti della filiera su cui si può intervenire per gestire meglio questi 5 ingredienti. Purtroppo Università e enti di ricerca, che svolgono questa funzione, sono considerati una “Cenerentola” in tutto il mondo, salvo eccezioni, e gli investimenti sono molto bassi.
Aziende e università sono complementari in questo, con funzioni simili ma differenti. Chiaramente l’industria investe su ricerche che producono tecnologia e quindi profitto, al contrario di un centro pubblico, che però ha difficoltà ad applicare il tutto su una scala più ampia. Di solito funzionano bene le partnership tra pubblico-privato. Bisognerebbe investire più risorse su questo ambito.”