MILANO – Sul quotidiano economico Il Sole 24 Ore è uscito questo articolo che sintetizza alcuni dei temi relativi alla filiera del caffè e indica, aggiornandolo, il valore dell’intera filiera dell’espresso italiano segnalando un valore di almeno 5 miliardi. Ve lo proponiamo. Naturalmente a questa cifra va aggiunta la parte caffè dei 6,6 miliardi di euro incassati nel 149 mila bar del Paese (fonte Fipe).
Il caffè non è solo la bevanda corroborante più amata dagli italiani, ma un tonico per tutta l’economia del Paese. Perché l’espresso italiano, che sia la povere nera tostata e macinata, che siano le macchine da bar e domestiche o che siano gli impianti di packaging per sacchetti e capsule vanta primati mondiali indiscussi e un business, lato produzione, attorno ai 5 miliardi di euro, con un grande potenziale inespresso oltreconfine: è un made in Italy che ha in sé i connotati di autenticità, qualità, tradizione e lifestyle, fattori che aprono alle nostre aziende le porte dei mercati globali (non solo nel food).
«Dobbiamo cominciare a muoverci all’estero con logiche sistemiche di filiera integrata, puntando sui servizi», ammettono gli operatori, che da un lato scontano il calo dei consumi domestici indotto dalla crisi (-3,5% nel 2015) ma dall’altro stanno crescendo a due cifre sulle piazze mondiali, nelle vendite sia di caffè (+11%) sia di macchinari (+10%).
L’Italia è il secondo importatore al mondo di chicchi (circa 1,4 miliardi di euro a valore) e il secondo consumatore di caffè (5,65 kg pro capite), dietro solo alla Germania. Sono oltre 800 le torrefazioni lungo lo Stivale con 7mila addetti che tostano e macinano il caffè verde importati (metà arriva da Brasile e Vietnam) generando un fatturato di 3,3 miliardi, di cui oltre un terzo (1,2 miliardi) è export, con un trend in forte crescita che sfiorerà il +8% quest’anno dopo il +11% del 2015, stima Aiipa.
E se alle torrefazioni si aggiunge anche il commercio al dettaglio di caffè torrefatto si sale a quasi 3mila imprese e 10mila addetti attivi nel Paese.
C’è poi il segmento delle macchine da caffè espresso professionali: 34 industrie danno lavoro in Italia a 1.250 persone e fatturano oltre 430 milioni di euro (fonte Ucimac-Anima); il 75% dei volumi li realizzano sui mercati esteri, dove sono protagoniste incontrastate nel segmento delle macchine tradizionali per bar e Horeca.
La leadership del tricolore è assoluta anche quando si parla di piccole macchine per l’espresso da casa: da sola la veneta De’ Longhi ha il 34% del mercato mondiale degli “espresso coffee maker”, segmento dove realizza oltre 720 milioni di euro di ricavi.
Infine, negli impianti industriali di confezionamento (dai sacchetti ai filtri alle capsule) i costruttori italiani si contendono la leadership con i competitor tedeschi e svizzeri in un segmento di mercato che vale circa 200 milioni di euro, «una delle nicchie più dinamiche per investimenti con interessanti margini di profitto che cresce da anni al ritmo del 10%», afferma Lorenzo Maldarelli, ad di Gima, società del gruppo bolognese del packaging Ima che ha il 20% del mercato mondiale.
Numeri che raccontano una filiera italiana artigianale e industriale in grande fermento, non solo per la rivoluzione arrivata con le capsule monodose (le cui vendite sono cresciute del 19% nel 2015), che stanno mettendo all’angolo moka ed espresso macinato e per l’esplosione dell’e-commerce (+43% lo scorso anno, secondo Competitive data) .
«Dobbiamo un grazie agli americani di Starbucks che hanno reso caffè e cappuccino un fenomeno globale di massa e ora spetta a noi lavorare per rimpossessarci del business legato all’espresso italiano autentico, il fenomeno dell’italian sounding è una piaga da eliminare anche nel nostro settore», afferma Patrick Hoffer, presidente del Consorzio promozione caffè.
La struttura molto frammentata del mercato non aiuta: i tre quarti del retail è in mano a pochi marchi globali (tra cui Nestlè, Lavazza, Illy, Segafredo Zanetti) mentre centinaia di piccole torrefazioni si spartiscono bacini locali di domanda difendendosi a fatica da una Gdo sempre più presente anche con le private label.
«Se da un lato è in atto una concentrazione tra le medie imprese in nome della competitività – aggiunge Hoffer – dall’altro si sta facendo largo il fenomeno delle microtorrefazioni artigianali per i cultori del caffè, un po’ come sta accadendo per i microbirrifici».
Sintomo di un approccio nuovo al caffè, non più tazzina da trangugiare in un sorso al bancone (per 6,6 miliardi di euro di volume d’affari nei 149mila bar del Paese, dice Fipe), ma un concentrato del “saper fare” italiano da degustare e valorizzare con cura.
Un approccio che ha portato anche l’Emilia-Romagna (seconda regione per torrefazioni dopo la Lombardia) a sperimentare una nuova forma di “salone” a metà tra la fiera e la galleria: il Cafèstival inaugurato il 6 novembre a Palazzo Albergati a Bologna per mettere assieme i vari anelli della filiera e «costruire un viaggio, una narrazione dell’espresso tra cultura e impresa, dove alla parte espositiva si affiancano quella museale e un ciclo di conferenze», spiega l’organizzatore Marco Meletti.
L’espresso come simbolo dello status del consumatore moderno
«L’espresso è il simbolo dello status di consumatore moderno, cosmopolita, evoluto e questo spiega perché abbiamo raddoppiato le esportazioni negli ultimi dieci anni e continuiamo a crescere, anche se la corsa nei Paesi del Far East ha molto rallentato e resta l’Europa il primo riferimento», conferma Maurizio Giuli, presidente del comparto Costruttori macchine per caffè espresso per bar di Anima-Confindustria.
La rotta però è chiara e porta nella terra asiatica e mediorientale dove i consumi si stanno occidentalizzando e dove i produttori italiani di caffè posso recuperare i margini erosi anche dall’attuale impennata del prezzo dell’arabica.
Ilaria Vesentini