MILANO – Nelle Marche esiste un importatore di verde, Shadhilly, che ha fatto della trasparenza un marchio di fabbrica: non un obbligo calato dall’alto, ma una scelta consapevole dettata da dei valori precisi, volti alla costruzione di una filiera che a partire dalle origini, è concretamente sostenibile per i coltivatori e poi per le aziende che importano e trasformano il chicco.
Racconta il creatore di Shadhilly, Massimo Mogiatti: “Durante gli ultimi sei anni siamo passati da un solo container importato dal Guatemala ad 11-12 da vari Paesi.
Un numero che per molti sembrerà irrisorio, ma che per i produttori di quelle origini ha rappresentato un cambio di vita totale.
Tutto questo, cercando di conciliare le esigenze del torrefattore, garantendo una qualità elevata che faccia conoscere la storia dietro alla tazzina.”
Shadhilly, 49 soci a sostegno di un progetto equo solidale
Da quanto vi occupate di specialty?
“Per molti anni ho lavorato per una delle principali energetiche italiane girando per il mondo e contemporaneamente facevo il volontario in una bottega che si occupava di commercio equo solidale.
Nel tempo, quest’ultima è diventata la mia vera strada: ho lavorato per una cooperativa marchigiana di commercio equo occupandomi di progetti di importazione.
Tra questi, uno legato al caffè del Guatemala, dove un sacerdote guatemalteco ci raggiunse per raccontarci le condizioni in cui si coltivava il caffè: erano gli anni 2001/2002 e la borsa del caffè arabica toccava uno dei peggiori minimi che si ricordano.
Ci siamo recati sul posto per conoscere questa comunità e valutare una collaborazione e in seguito ci siamo tornati varie volte: così mi sono appassionato al chicco.
Dopo 10 anni, nel 2012, mi sono stancato di viaggiare e di dover escludere alcuni dei produttori che volevano entrare in questo circuito, perché non avevamo a disposizione le risorse e le dimensioni necessarie per esser coinvolti.
Inoltre, la consapevolezza che intorno al caffè ci fosse un mercato economico impressionante, mi suggeriva che potessimo avere un impatto davvero significativo sulle condizioni di questi farmers.
Abbiamo allora fondato una cooperativa che si focalizzasse esclusivamente su questa materia prima perché le opportunità per agire erano tante e quei cambiamenti che potevano apparire minimi per noi, alle origini avrebbero avuto un grande effetto sulla qualità della vita dei contadini.
Sin dall’inizio abbiamo intuito, grazie anche al confronto con diversi torrefattori, che studiare approfonditamente il caffè era la giusta strategia per questo nuovo percorso, tanto per noi quanto per i produttori.
Abbiamo quindi intrapreso un tragitto parallelo (sia noi che i farmers) di formazione, da una lato in piantagione tramite specialisti e agronomi locali e dall’altro frequentando corsi di specializzazione inizialmente sul green coffee e sensory, per poi passare anche al roasting e brewing.
Perché nel mondo del caffè non si smette mai di imparare.
Siamo degli importatori di verde, anche se ci interessa la torrefazione. Ma per il momento non ci siamo sviluppati in questo senso, innanzi tutto perché sappiamo quanto sia complesso il mondo della torrefazione e non ci si può improvvisare, in parte per non metterci in competizione con i nostri stessi clienti (molti dei quali sono oramai anche amici).
Ci penseremo per il futuro, ma soltanto nell’ottica di rispondere alla richiesta che a volte ci viene rivolta, di creare piccoli lotti personalizzati che sarebbero troppo ridotti da gestire per alcuni terzisti medio/grandi e troppo ingenti per i micro torrefattori.”
Shadhilly è un cognome che si perde in una delle leggende che raccontano l’origine della scoperta del caffè Ali Bin Omar Al Shadhilly, personaggio realmente esistito: un monaco sufi yemenita.
Invaghitosi della figlia del sultano viene costretto a vivere in esilio, e durante i suoi viaggi scopre le bacche del caffè e le usa come medicamento usandone il decotto.
Risulta essere la cura miracolosa contro una malattia della pelle che si era diffusa nel sultanato, e così, Al Shadhilly ha riconquistato il suo ruolo nella società.
Racconta Massimo Mogiatti: “Nella mia vita precedente di dipendente, ho passato diversi anni nei paesi medio orientali, e quel mondo mi ha sempre affascinato.
Il nome Shadhilly in particolare, ancora oggi, soprattutto nella fascia dei paesi nord africani e in alcuni medio orientali, è considerato una sorta di protettore dei consumatori e produttori di caffè. Così l’ho scelto per la nostra attività commerciale.”
Ma vi siete occupati sempre e soltanto di specialty?
“Ci occupiamo di specialty, ma non soltanto di quelli, perché ci piacerebbe tanto che il discorso attorno a questo prodotto di altissima qualità servisse da traino per far elevare la qualità media anche dei caffè più commerciali.
Se lo specialty restasse la piccolissima nicchia di mercato in cui vengono acquistati solo piccoli lotti dalle micro torrefazioni per inserirsi in piccoli mercati o per le competizioni, il nostro obiettivo di sostenere le comunità produttrici, vacillerebbe.
Difatti così facendo, riusciremmo a supportare soltanto una famiglia, ma non aiutarne tante altre né ad elevare la qualità media del resto del caffè che viene coltivato, e di conseguenza i farmers non potrebbero fissare un prezzo più alto.
Un altro effetto collaterale che mi spiace notare: la grandissima parte del caffè che importiamo e vendiamo ai nostri clienti, viene lavorato per poi esser venduto all’estero.
Questo perché in questi paesi è meno forte la presenza e la tradizione dell’espresso, e invece è più diffuso il filtro e la tostatura più chiara. Al contrario in Italia, in cui siamo interessati più al corpo della bevanda, gira più Robusta e di qualità medio bassa.
Ma d’altronde nel nostro Paese ci sono tanti che ancora pensano che sia importante per la bontà di un espresso soprattutto la buona performance della macchina piuttosto che la qualità della materia prima.
Sicuramente una buona macchina è importante, ma ragionando così non faremo mai il passaggio culturale per cui è possibile che anche il caffè commerciale sia di buona qualità.
Importiamo in maniera più costante dal Guatemala, Honduras, Uganda, India e inoltre seguiamo anche altri piccoli progetti, con importazioni meno costanti negli anni per problematiche di vario tipo, da Nepal, Rwanda, Venezuela, Haiti.
Cerchiamo di promuovere in tutti questi paesi, oltre ai processi più conosciuti e considerati standard, alcune piccole produzioni di lavorazioni più particolari quali honey (yellow e red), fermentazioni anaerobiche (naturale e lavata).
Il torrefattore che fa la scelta di tostare caffè di qualità è curioso e ama provare cose nuove.”
Cosa è successo in questi anni e perché siete ancora convinti che la strada che avete scelto è quella giusta?
“Uno dei nostri impegni, e grande piacere, è la visita regolare alle organizzazioni di produttori con cui collaboriamo.
Condividere le molte fatiche, e qualche soddisfazione, serve a conservare una relazione sana.
Progettare il futuro, ognuno nel proprio ambito ma con alcuni ideali comuni può nutrire la speranza e qualche nuovo sogno.
Abbiamo progetti che vanno avanti da oltre 15 anni ed è la dimostrazione che funzionano. È successo in passato che alcune comunità, non riuscendo più a vendere il caffè ad un prezzo minimamente accettabile, abbandonassero i campi in cerca di altri lavori in città o addirittura in altre nazioni.
La gente scappa a qualsiasi costo, affrontando qualunque rischio pur di sopravvivere.
L’unico modo per permettere loro di restare a casa è dimostrare che possono vivere dignitosamente nella loro nazione, in questo caso specifico, coltivando caffè.
Se noi tornassimo nei posti in cui siamo arrivati 15 anni fa e oggi proponessimo ai giovani di continuare la professione della loro famiglia, adesso la loro risposta sarebbe ben diversa: pagando onestamente il frutto del loro lavoro, hanno realizzato che è possibile vivere serenamente.
Il percorso che abbiamo portato avanti con molti di questi gruppi è stato soprattutto formativo e di consapevolezza, per poi diventare anche vantaggioso dal punto di vista commerciale: molti di loro spesso si accontentano di raccogliere la bacca e venderla all’intermediario di turno.
Andare oltre la drupa per molti è difficile perché significherebbe occuparsi dei processi, quindi competenze e strutture.
Prestiti e/o finanziamenti, interni ed esterni, hanno consentito questo cammino e l’acquisizione delle attrezzature per lavorare il caffè e aumentarne così il valore e creare occupazione.
In questo arco di tempo siamo riusciti a promuovere comunità che ora sono in grado anche di esportare direttamente il loro caffè, oltre ad aver appreso nuove tecniche agronomiche e di processo.
Li abbiamo supportati ad emanciparsi e oggi ne “paghiamo il prezzo”.
Miglioramenti sociali, competenze e consapevolezza li portano, a volte, a prendere strade diverse dalle nostre. Una emancipazione che li rende autonomi da tutti, anche da noi, ma non era quello che sognavamo 15 anni fa?
Tutto questo si riflette anche sul nostro lavoro qui in Italia, da un lato cercando di costruire una relazione, anche con i nostri clienti, basata davvero su fiducia e collaborazione reciproca, dall’altro agendo sul nostro territorio, siamo sempre pronti a spendere il nostro tempo per andare nelle scuole, nei Gruppi di Acquisto Solidale, gruppi scout, associazioni e circoli di qualunque ispirazione, a parlare di un modo diverso di fare commercio del caffè.
Aderiamo per questo stesso motivo ad Equo Garantito, associazione nazionale del commercio equo solidale, che si è dotato di un sistema di monitoraggio e certificazione controllato da un ente esterno, il CSQA, ogni anno i valutatori di Equogarantito vengono a trovarci per verificare che le nostre belle parole corrispondano ai fatti rispetto al nostro impegno verso i produttori, verso i nostri lavoratori e verso l’ambiente.”
La sostenibilità della filiera passa per la tracciabilità e la trasparenza: ci parla del sistema di prezzo che avete adottato, come lo avete strutturato e perché avete deciso di renderlo così esplicito al consumatore?
“È stata una cosa molto facile da fare, perché innanzitutto è uno dei criteri del commercio equo in generale.
Ci siamo chiesti: vogliamo rendere consapevole il consumatore rispetto a quello che succede quando compra un prodotto? Poi ad alcuni non interessa, ma di fatto nessuno sa, quando si va ad acquistare un pacchetto di caffè al supermercato, dove vengono ripartiti i suoi soldi.
Come avviene la distribuzione del valore? A noi è sembrato giusto informare il consumatore, facendogli scoprire che il 38-39% è quello che viene pagato al produttore di caffè.
In questo modo, se si viene a sapere che in un altro pacchetto di caffè, qualsiasi, quel 38% si riduce al massimo al 4% e c’è una importante fetta che invece viene destinata ai costi promozionali e di marketing, il consumatore potrebbe scegliere più consapevolmente.
Abbiamo fatto anche due schede diverse, una per il verde e una per il caffè torrefatto e le abbiamo strutturate basandoci sul metodo che applichiamo per stabilire il prezzo ai nostri stessi clienti.
Qui il torrefattore può vedere che oltre l’80% del prezzo che chiediamo diventa prezzo FOB pagato al produttore. Queste tabelle vengono, mediamente, aggiornate ogni stagione.”
Come sono le reazioni sin qui?
“I torrefattori generalmente sono molto contenti. Anche del dettaglio che non è tanto visibile ma è importante soprattutto per loro: costruiamo questo prezzo quando importiamo il caffè.
Quel prezzo per noi vale da qui sino alla prossima importazione, senza listini settimanali che variano a seconda dell’andamento della Borsa.
I clienti apprezzano tanto il poter fare, a loro volta, programmazioni più certe, e vedere cosa giustifica il prezzo dietro il chilogrammo di caffè.”
Futuro per Shadhilly e per il mercato del verde?
“Negli ultimi anni c’è sicuramente un gran parlare e qualche preoccupazione intorno al caffè verde, qualche volta con, purtroppo, valide ragioni come quelle legate ai cambiamenti climatici, argomento oramai costantemente presente negli incontri con i produttori; altre volte, purtroppo, legate solamente a fasi speculative del mercato.
Vedo Shadhilly che continuerà a lavorare duro. Ci sarà probabilmente bisogno di rinforzi, di persone che condividano alcune cose: qui non si viene a lavorare in un posto in cui si fa il lavoro soltanto per lo stipendio. Il salario si costruisce mese per mese. Non c’è il dipendente: siamo tutti uguali e si fa quel che serve per portare avanti il progetto.
Dallo scarico dei container al viaggio nei paesi d’origine.”