FOGGIA – Per fortuna la prof. Carla Severini adora il caffè. Altrimenti come avrebbe fatto a berne centinaia e centinaia di tazzine? L’ha fatto in dieci anni, recandosi in 688 bar del Nord e del Centro Italia. Dove ha valutato le modalità di preparazione dell’espresso, un vero simbolo dell’Italia.
Severini insegna al Dipartimento di Scienze Agrarie, degli Alimenti e dell’Ambiente dell’Università di Foggia
Con lei, hanno condotto l’indagine Romani, Cevoli e Derossi del Dipartimento di Scienze degli Alimenti e del Dipartimento di Economia. Nonché Ingegneria Agraria dell’Università di Bologna, con gli esperti della Essse Caffè. L’azienda di torrefazione dell’Emilia Romagna che ha sponsorizzato la ricerca.
Cosa è emerso?
Tradurre risultanze scientifiche nella pratica non è mai agevole. Cominciamo col dire che la qualità dell’acqua, fra gli ingredienti più decantati dai napoletani per il loro caffè, non c’entra nulla.
Sono altre le variabili che determinano la bontà dell’espresso
Ad esempio (chi l’avrebbe detto?) il livello di umidità dell’aria, ma anche questo fattore è relativo. Sono solo tre i segreti per un ottimo espresso. Come il tipo di macchina di estrazione con cui si prepara (quelle considerate sono da due tazze); il tipo di macina-dosatore utilizzato. Infine, la formazione degli operatori dei bar, cioè la bravura di chi lo prepara.
«Perché il risultato cambia – specifica la prof. Severini – a seconda, ad esempio, della pressione esercitata sul panello di caffè nel filtro al momento della preparazione».
L’indagine, presentata da Carla Severini alla conferenza mondiale sul caffè svoltasi in Costa Rica
E’ stata condotta direttamente nei bar (688) di sei regioni del Centro e Nord Italia, fino a Lazio e Abruzzo per intenderci. E dove si gusta l’espresso migliore ?
«Secondo gli indici di qualità, in Toscana e in Romagna», la risposta di Carla Severini.
Nel corso della ricerca, condotta dal 2000 al 2011, sono stati analizzati gli effetti sulla qualità dell’espresso valutando il tipo di impianto di tostatura, il tipo di macina-dosatore, il tipo di macchina estrattrice (manuale, semi-automatica e automatica), la temperatura e la pressione dell’acqua impostate nella macchina, la dose di polvere utilizzata per l’estrazione e la compressione del panello nel filtro.
La qualità del caffè in tazza è stata valutata anche per la consistenza e l’altezza della crema, il contenuto in solidi, il pH e il volume della bevanda. I ricercatori hanno condotto infine alcune prove sperimentali in condizioni di processo controllate, per valutare gli effetti sulla qualità del caffè di alcune variabili che dall’indagine condotta “sul campo” risultano particolarmente fuori controllo (si diceva dell’umidità, ma ci sono tanti altri fattori).
Il team di ricercatori ha raccolto oltre 9.000 dati che sono stati poi elaborati statisticamente per poter apprezzare le differenze significative, l’impatto delle singole variabili sulla qualità in tazza e le differenze esistenti tra le diverse aree geografiche e attraverso gli anni di indagine.
«Fare un buon caffè significa seguire un procedimento – spiega Carla Severini – l’azienda produce caffè tostato che in partenza è molto omogeneo, ma è diverso ciò che arriva da regione a regione. Per questo è interesse delle aziende, per tutelare la qualità del proprio caffè, fare formazione sugli operatori e controllare la standardizzazione delle macchine».
Interventi che ora si avvarranno dei risultati di questa ricerca.
Fonte: La Gazzetta del Mezzogiorno