di LUIS SEPULVEDA
Ora grazie allo sguardo di Salgado, mi avvicino ai lavoratori del caffè della Tanzania, della Cina, dell’India, dell’Etiopia e dell’Indonesia. Posso udire lo stesso fragile suono provenire dalle mani che raccolgono uno a uno i grani, il rumore dei grani che cadono anch’essi uno a uno nel sacco, il dolce scorrere delle mani nella prima selezione dei grani, sempre uno a uno, e la melodia da mare in bonaccia che si ascolta quando nei magazzini vengono sparsi i grani per l’essiccazione.
Con le sue fotografie Salgado ci invita a leggere l’aroma del caffè, o a guardare il fondo della tazza, non per intravedervi il nostro futuro, ma per scorgere una lunga fila di uomini e donne che si inerpica su per stretti sentieri fin sopra le nuvole o che si fa strada attraverso boschi oscuri e umidi, a dorso di mulo, fino ad arrivare alla piantagione di caffè.
Donne e uomini di razze e colore di pelle diversi, che nei templi dell’accaparramento paiono dedicarsi a una religione sconosciuta.
Così come in alcune religioni le mani si passano i grani del rosario — vuoi per invocare tutti i nomi dei loro dèi, vuoi per ricordare compunti, le tappe del martirio — in quei templi le mani si passano i grani, uno a uno, riconoscendo nella composizione il colore, l’aroma e il sapore che avranno più tardi.
Guardo le fotografie e immagino Salgado dietro il suo obiettivo, in cima a un monte in attesa che si apra uno squarcio tra le nuvole e le colonne di luce solare inondino la piantagione.
Posso immaginarlo mentre si rende invisibile affinché il contadino africano in posa, vestito della sua elegante umiltà, non si inibisca; affinché la contadina dai tratti maya conservi il sorriso antico; affinché la coppia di volti asiatici non perda maestà.
Diversi anni fa, nella Speicherstadt di Amburgo ho assistito a una liquidazione di caffè. Si vendevano migliaia di sacchi, di diversa provenienza e denominazione. Si parlava di prezzo, si soppesava la bontà del contenitore e del trasporto, si elogiava il clima di un dato anno e la pioggia caduta con minore o maggior abbondanza in alcune zone del mondo, ma neanche una parola sugli uomini e le donne dalle cui mani provenivano quei grani di caffè.
Nessuno ricordava il contadino della Tanzania che aveva letto sulle foglie il momento buono in cui separare i grani dal fusto. Nessuna voce ricordava la contadina del Guatemala che, portandosi un figlio in spalla, saliva fino al regno delle nuvole per portar giù i frutti che avrebbero rallegrato le mattine europee.
È questo che fa Sebastião Salgado: restituire l’epica dello sforzo umano, la dignità onnipresente del lavoro nella splendida sobrietà delle sue gesta, ossia raccontare in immagini la storia del mondo.