domenica 22 Dicembre 2024
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SCRIVE ANDREA LATTUADA – “Vorrei che in ogni città d’Italia ci fosse almeno un coffee shop, anche a Milano per l’Expo 2015…”

Ricordi e riflessioni dopo gli interventi di Manuel Terzi, Maurizio Giuli e Roberto Pregel

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di ANDREA LATTUADA* 
Dopo alcuni mesi di riflessioni e dopo aver letto con molta attenzione gli interventi degli amici Maurizio Giuli e Manuel Terzi e ascoltato con nostalgia l’intervista di Roberto Pregel sento il dovere di esporre alcuni pensieri non solo in veste di Coordinatore Scae Italia, ma anche come Barista Trainer e soprattutto Coffeelover.

Facendo un tuffo nel passato e precisamente nel 2001, più o meno nello stesso periodo in cui Manuel Terzi iniziava il suo percorso nel mondo dei caffè speciali fondando “Caffè Terzi”, ebbi la fortuna di incontrare colui che oggi posso definire il mio mentore ovvero Roberto Pregel.

Era una sera di fine inverno e stavo lavorando come bar manager in un noto locale della mia zona. Mentre stavo preparando alcuni drink al bancone si avvicina una persona con fare distinto e si presenta come Marketing Manager della Brasilia S.p.a. Fissiamo un incontro da lui in azienda in quanto aveva un progetto da sviluppare riguardante i training per baristi.

Sinceramente non capii subito di cosa si trattasse in quanto il mio background era quello legato alla miscelazione alcolica e a quei tempi il caffè era qualcosa che non consideravo, da ignorante, degno di importanza.

In poco più di un’ora Roberto Pregel mi apri un mondo fino a quel momento a me sconosciuto e dopo un periodo di training intensivo fui catapultato in giro per il pianeta ad insegnare la preparazione del nostro espresso.

Dopo solo un anno di esperienza avevo visitato tanti paesi e incontrato tantissimi torrefattori, distributori e baristi con culture differenti ma tutti accomunati da una forte sete di conoscenza. Intanto mi accorgevo che poco a poco i baristi stranieri incominciavano ad essere più completi e professionali di quelli di casa nostra…la loro attenzione incominciava a spostarsi dalle tecniche di preparazione, ormai assimilate, a quella della pura conoscenza della materia prima e all’analisi sensoriale della stessa con particolare attenzione a tutto ciò che riguardava gli Speciality Coffee.

Questa nuova ondata di cultura legata il caffè pervadeva il nord europa (Scandinavia) e incominciava diffondersi in alcuni paesi mediterranei (Grecia) per arrivare fino all’estremo oriente (Giappone e Corea del Sud) per non parlare dell’Australia. Anche gli Stati Uniti erano sulla stessa lunghezza d’onda ma con forti influenze di SCAA.

Nel 2003 ho partecipato al World Barista Championship a Boston e li ho incontranto i migliori baristi del mondo e ho avuto i primi contatti con tutti i personaggi che hanno contribuito a rendere famoso il mondo degli Speciality Coffee tra cui Sonja Grant, Fritz Storm e Josè Areola.

Il confronto con loro ha contribuito a sensibilizzare la mia coscienza e a farmi capire che se in Italia non si incominciava a fare qualcosa di concreto avremmo perso in pochissimo tempo la nostra nomea di coffe expert. Incominciai da subito ad essere parte attiva nell’organizzazione delle competizioni baristi dando un aiuto a Roberto Pregel andando in giro per l’Italia facendo workshop da vari torrefattori e associazioni di settore cercando di spargere il verbo della qualità, ma a parte alcuni appassionati la maggior parte pensava che quello che stavamo facendo fosse qualcosa di non adatto al mercato italiano in quanto ancora convinti che solo “noi italiani” avevamo la conoscenza e le competenze per “fare” il caffè in maniera eccellente.

Eppure ciò che assaggiavo in giro per il mondo era totalmente diverso da ciò che provavo in Italia…all’estero era più buono! Ma all’estero dove? Sicuramente non da Starbucks o dalle mille imitazioni nate dallo stesso, ma in quei posti un po’ alternativi, in quelle botteghe artigiane che servono solo caffè , come il nostro amico Manuel, che nel retro o in bella vista hanno magari una tostatrice, in quei posti dove si parla con il cliente, dove il Barista parla e spiega al cliente che i caffè, quelli buoni, hanno flavours diversi perché vengono coltivati a diverse altitudini, perché esistono varietà botaniche diverse e perché si processano in modi differenti…dove si percepisce la qualità, la si respira insomma.

E poi ad un certo punto si incominciano a vedere oggetti strani su banchi dedicati, i cosiddetti “brew bar”, oggetti dalle forme bombate e in vetro che a prima vista possono sembrare gli strumenti di un alchimista..sono i metodi di estrazione alternativi, i V60, i Syphon, le Chemex, i Cold Brew Dripper, i Decanter, le Areropress metodi per esaltare le caratteristiche aromatiche, smorzare il gusto amaro ed enfatizzare piacevolmente le acidità di caffè unici.

Nel corso degli anni ho incominciato a cercare posti simili in Italia pensando di trovarli, ma niente…ho provato a spiegare agli operatori e ai torrefattori cosa si poteva fare con il caffè e la risposta è sempre stata la stessa: “ In Italia siamo comunque i migliori, il nostro espresso è il più buono e il cliente non accetterebbe di pagare più di 1,00 € la tazzina”…dopo 10 anni dicono ancora le stesse cose.

Ma noi Italiani non possiamo pensarla così, come dice Roberto Pregel siamo condannati all’eccellenza e invece ci siamo concentrati sullo sviluppo del caffè “porzionato”, abbiamo messo il caffè in capsula, ma in questo modo non abbiamo differenziato il business ma allungato l’agonia del nostro espresso.

La capsula è un modo per rimanere a galla, per non soccombere alle perdite dell’esportazione del torrefatto in grani. La capsula non deve essere qualcosa di sostitutivo ma qualcosa di aggiuntivo qualcosa che posso bere a casa o in ufficio, deve essere lo standard, ma l’eccellenza la devo trovare al bar e invece nella maggior parte dei casi quello in capsula è meglio proprio perché “standardizzato”.

Conseguenza: il consumo nel nostro amato bar è crollato in questi ultimi 10 anni perché la qualità del caffè che importiamo è crollata, perché il prezzo del verde è ai massimi storici, perché il prezzo della tazzina deve essere di 1€, perché quasi tutte le torrefazioni hanno fatto finta di parlare di qualità, hanno “aiutato” i baristi con finanziamenti e macchine in comodato, e soprattutto hanno creato una controcultura latente mantenendo volutamente i poveri baristi nell’ignoranza estrema.

Caro Maurizio Giuli hai proprio ragione tu quando definisci l’attuale condizione dell’espresso italiano: “quella cosa piena di Robusta, tostata scura, amara in bocca che può essere consumata solo con un’abbondante dose di zucchero”. Ma permettimi anche di dissentire quando parli di immobilismo. Io parlerei di vera e propria regressione.

Allora cosa bisognerebbe fare? Io dico copiare. Si copiare gli stranieri, incominciare ad essere Global da questo punto di vista. Fare solo quello che hanno fatto loro verso di noi e da li ripartire ma non per rinascere (anche perché non siamo morti) ma per evolverci a livello di apertura di pensiero, e poi a livello pratico andando a diversificare l’offerta con caffè eccellenti, estratti con diversi metodi, in ambienti di nuova concezione, con Baristi qualificati e professionali ma non solo perché hanno un’esperienza ventennale (non basta più) bensì perché hanno studiato perché hanno viaggiato hanno assaggiato e hanno capito…e magari con torrefattori che almeno una volta nella vita in una piantagione di caffè ci sono stati, che ne sanno veramente di caffè, perché lo hanno vissuto in prima persona e non solo visto in fotografia, e che magari l’espresso e il cappuccino siano anche capaci di preparalo, che non pensino più all’immagine del packaging ma al suo contenuto e che non abbiano segreti scrivendoci sopra quello che veramente c’è dentro.

Un po’ come Enrico Meschini, persona che stimo molto e che ha dimostrato che si può fare e ce la possiamo fare anche qui in Italia a non aver segreti. Bisogna fare in modo che il torrefattore diventi veramente il migliore amico del barista perché lo sa ascoltare, supportare con la qualità del prodotto magari consigliato dallo stesso barista.

Francesco Sanapo è da copiare perché il suo coffee shop a Firenze lo ha aperto grazie all’esperienza maturata nel mondo.

Eddy Righi è da copiare per lo stesso motivo. Ma dopo aver copiato ed essere stati globalizzati da questo punto di vista, dobbiamo ritornare ad essere “Glocal”, citando nuovamente Pregel, declinando i nostri prodotti grazie alla nostra inventiva e alle nostra capacità di essere innovatori, ritornando nuovamente a fare tendenza ed eccellenza.

Vorrei che in ogni città italiana oggi ci fosse almeno un coffee shop. Vorrei finalmente consigliare senza paura i Coffelovers che vengono in Italia e mi chiedono dove possono andare a bere un buon espresso o drip coffee ad esempio a Milano…ad oggi, a sei mesi da expo 2015 non saprei ancora cosa rispondere…e tutto ciò è assurdo!

*Coordinatore SCAE Italia, Authorized Scae Trainer, Scae Examiner

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