MILANO – Durante la Fiera mondiale del caffè, il World of Coffee, che al MiCo di Milano ha saputo raccogliere molti degli attori di una filiera lunga e complessa in un unico luogo, Sca Italy ha voluto giocare il suo ruolo di punto di congiunzione tra i tanti protagonisti del settore italiano che stanno vivendo un momento di profonda crisi, attorno al dibattutissimo tema qualità/prezzo dell’espresso.
E li ha riuniti tutti in una tavola rotonda. Gli invitati che hanno dato il loro contributo sono stati tanti: Paola Goppion (presidente Csc, Caffè speciali certificati) Emanuele Drughera (Slow Food Coffee Coalition Coordinator), Stefano Tiberga (Codacons), Luigi Morello (presidente del comitato tecnico del Consorzio di tutela dell’espresso italiano tradizionale e dell’IEI (istituto espresso italiano), Omar Zidarich (Gruppo italiano torrefattori caffè), Andrea Doglioni Majer (presidente dell’Associazione dei costruttori italiani di macchine e attrezzature per caffè, professionali e semi professionali Ucimac).
Sca Italy ponte tra i professionisti su una linea strategica comune
Si è partiti da un quesito unico qualità/prezzo dell’espresso per tutti i partecipanti: quali sono le caratteristiche che una bevanda deve avere per esser di qualità e rappresentativo del made in Italy nel mondo.
Emanuele Drughera di Slow food è il primo a prendere la parola: “Slow food ha codificato questa formula tempo fa, pensando che una bevanda debba esser buona, pulita e giusta. Quindi che sia dotata di una qualità organolettica, sia piacevole al palato e infine ad un costo adeguato per chi lo produce. Come si trasferisce questo discorso sull’espresso? Come Slow food coffee coalition, abbiamo iniziato questo percorso di certificazione partecipativa di secondo livello, che abbiamo avviato con molti produttori.
Certo, non esiste una certificazione perfetta: la Pgs è basato sulla fiducia, sulla ownership del contadino e su zero costi per il farmer. ”
Prosegue Andrea Doglioni Majer, presidente Ucimac: “Rappresento chi trasforma il caffè da una sostanza viva, frutto di tanti processi anche molto complessi, nella tazzina finale. La domanda va affrontata da più punti di vista. Cosa intendiamo per qualità? Penso a quella organolettica: che il caffè quindi mi piaccia e sia stabile sullo scaffale del supermercato, per un periodo sufficiente a godermelo a seconda delle mie esigenze.
E poi c’è la qualità che assicura un processo sotto controllo, igienico. Un altro aspetto interessante è quello legato al caffè che varia al sud o al nord: faccio un esempio per comprendere meglio. Quando si guida dalla Liguria in Costa azzurra e ci si ferma a Ventimiglia, si beve ancora il caffè italiano. A solo qualche chilometro di distanza, a Mentone, diventa francese. Quindi cosa caratterizza il prodotto made in Italy? Una qualità costante, che risponda ai gusti del consumatore. Come fabbricanti di macchine dobbiamo produrre attrezzature in grado di rispondere alle esigenze dei baristi e dei consumatori nel modo più ampio possibile, da Mentone a Catania.”
Eleonora Pirovano, vicepresidente di Iwca: “Sicuramente un prodotto di qualità nel mondo del caffè deve rispettare dei valori e deve esser giudicato dai professionisti che lo valutano e questo non solo tra gli specialty. Il prodotto made in Italy per eccellenza resta la miscela: l’espresso italiano nasce come blend. La ricetta segreta dei torrefattori deve esser composta però da ingredienti di prima qualità, senza difetti. Questo spesso al sud non accade, perché oltre a proporre miscele con altissima percentuale di Robusta, i chicchi non sono controllati. Il barista spesso chiede al torrefattore un prezzo più basso, perché non conosce che cosa sta acquistando. Il torrefattore deve dare e comunicare un prodotto di qualità. È necessario partire da lì.”
Interviene all’incontro Sca Italy, Paola Goppion, presidente di CSC:
“Ho ereditato un anno fa l’importante ruolo di presidente di CSC. Una storia nata 26 anni fa, grazie a dei pionieri che hanno deciso di rendere definibile assolutamente la qualità del caffè. Lo hanno fatto attraverso i viaggi, per conoscere i luoghi d’origine, le persone che coltivavano il chicco. Condividendo con loro anche le migliorie di sistemi di produzione. Da questa parte della filiera, volevamo proporre al consumatore e ai baristi dei grani che fossero buoni.
Questo lavoro ha dato a noi torrefattori, ora 8 aziende e speriamo di crescere ancora, la gioia di lavorare con caffè buonissimi e poi di dare l’opportunità di trasmettere le peculiarità di questo esperimento, di quei caffè che all’epoca non si chiamavano specialty. Erano speciali. Questo ha reso possibile arrivare al barista, e poi al consumatore: l’operatore è riuscito a raccontare il prodotto con verità, autenticità. Erano piantagioni dichiarate, tracciabili e questo rappresenta il miglior made in Italy. Le diversità poi certo sono una ricchezza. Ma la qualità ci dev’essere ovunque. Come torrefattori, chi fa le miscele a Messina produrrà qualcosa di differente da altre aziende in Italia, ma comunque mantenendosi sempre su un livello alto.
Dovremmo esser profondamente fieri di portare in giro per il mondo l’espresso e ce la faremo. La chiusura dei nostri bar per la pandemia, delle torrefazioni, ci ha ripresentato all’apertura un consumatore più sensibile che in tanti casi ha cambiato le sue abitudini, scegliendo da casa i caffè che voleva bere.
Il nostro progetto certificato di Csc può sostenere il prezzo di una tazzina più alta. È un processo lento, che però sta avvenendo. Ci manca la scuola, dobbiamo imparare tante cose. Il male in Italia è che si è bevuto il caffè buttandolo giù senza farci domande. Ora le cose stanno cambiando finalmente, e qualcuno non vuole più pagare un caffè cattivo. Io ho cominciato a farlo, con fatica, ma lo rimando indietro.”
Luigi Morello, presidente Iei e Consorzio di tutela del caffè espresso italiano tradizionale
“La qualità è anche libertà: oggi al bar non possiamo scegliere. Paghiamo la stessa cifra e beviamo quello che altri hanno scelto per noi. Questo non avviene per i ristoranti, il vino, il cibo. Il prezzo è un concetto imposto anche culturalmente, sembra che non si possa andare oltre una certa soglia, e quindi da consumatore non posso scegliere qualità differenti.
La diversità esiste: come Iei abbiamo individuato 5 profili sensoriali diversi. Non sono i confini geografici a definirli, ma tratti culturali, antropologici ed è un valore aggiunto. Sono tutti caffè di qualità.
Come Iei ci siamo concentrati sulla formazione, passaggio fondamentale. Il caffè viene trasformato e gli ultimi 25 secondi di erogazione possono distruggere tutto il percorso fatto in precedenza. Il barista, il consumatore, devono esser entrambi formati per saperlo valorizzare e apprezzare. Insieme al Consorzio poi, ci siamo impegnati a portare il caffè al riconoscimento come patrimonio immateriale dall’Unesco.
L’espresso è nato in Italia e poi è andato in giro per il mondo. Lottiamo per la qualità, senza disprezzarla, proteggendo la nostra storia. L’espresso italiano è una miscela di diverse famiglie e origini. Quello che sta alla base del blend è garantire la stessa qualità, lo stesso profilo organolettico nel tempo. La scientificità, la tradizione, del torrefattore italiano è quella di andare a scegliere origini diverse garantendo lo stesso profilo sensoriale.”
Interviene Omar Zidarich, presidente del GITC:
“Rappresento chi sviluppa il prodotto caffè: come torrefattori dobbiamo fare un po’ di autocritica. Cerchiamo di garantire al nostro cliente la qualità, con prodotti che presentiamo come migliori, però poi pecchiamo di comunicazione. Quando vendiamo dei caffè ci basiamo sulla quantità, senza preoccuparci che il distributore sia spinto ad acquistare il maggiore quantitativo possibile, senza considerare poi in quanto tempo smaltirà ciò che ha comprato. Chi si sente di dire che il caffè all’ultimo giorno della scadenza sia buono quanto quello appena venduto? Nessuno.
Bene: non riusciremo mai a bloccare il processo di deterioramento del prodotto, ma facendo offerte che istigano i distributori a commercializzare dei caffè che nel tempo non sono più all’altezza è chiaro che dopo 10 mesi non rispecchieranno più le caratteristiche che abbiamo certificato inizialmente.
Altra cosa: dobbiamo iniziare ad avere il coraggio di perdere i clienti. Quando applichiamo dei rincari e il cliente non lo accetta, non dobbiamo trovare una soluzione di compromesso dando la 18ª miscela senza la qualità garantita di prima. Il pensionato che va al bar e non lavora nel settore, non sa della scelta fatta del barista e si troverà una qualità diversa in tazza. All’estero il consumatore ha più conoscenza del prodotto: quando si affronta la questione dell’aumento del prezzo, bisogna esser cooperativi tra torrefattori, e non farsi la guerra.
Siamo nati tutti come degli artigiani, anche di quartiere. Spesso dall’idea di una famiglia che poi ha creato un marchio. Oggi valutiamo sempre e solo i quantitativi, ma la qualità e quantità non sempre possono camminare assieme.”
Il microfono a Davide Cobelli, coordinatore nazionale Sca Italy:
“La mia visione di qualità passa attraverso dei valori che toccano tutta la filiera, a partire da dove viene prodotto il caffè sino al suo consumo. Molto spesso non riusciamo a trasmettere questi principi proprio a chi dovrà pagare quel prodotto e berlo. Il consumatore non conosce chi c’è dall’altra parte del mondo, non sa delle famiglie e dei bambini che sopravvivono su questa coltura. Per me “valore” significa migliorare le loro condizioni e per fare ciò bisogna vendere prodotti più sostenibili, sia in termini di impatto sociale che ambientale.
Molto spesso nei bar si vende il prodotto sottocosto, perché i baristi non hanno una preparazione da imprenditori per fare i conti giusti e vendere la bevanda al valore reale di mercato. Piuttosto, si standardizzano rispetto al vicinato: così facendo però si alimenta il gioco di chi lo vende a meno e si abbassa il valore di ciò che si sta proponendo.
Di conseguenza, il torrefattore cercherà un prodotto meno caro perché i baristi gli chiederanno un prezzo più basso. Vorrei poi fare formazione nei confronti anche dei consumatori e non solo dei baristi. Dobbiamo dar loro degli strumenti per poter valutare questo prodotto. È ora di cambiare, se vogliamo che il cliente finale percepisca il valore reale della bevanda, andando al di là del prezzo. Che non è il focus di oggi: c’è spazio per tutti sul mercato. Il punto è: il consumatore sa riconoscere le diverse qualità, ed è disposto a pagarle diversamente così come fa con il vino o la pizza?”.
Di nuovo per Slow Food:
“Se è vero che la qualità è una narrazione, il torrefattore deve saper raccontare al barista il caffè oltrepassando la formula magica. Manca ancora la formazione di base. Una delle soluzioni pratiche che stiamo sviluppando? Organizzare, grazie alla collaborazione con l’Accademia del caffè espresso e Bwt, un incontro all’inizio di novembre, che coinvolgerà 40 chef di Slow Food, per un corso di formazione di due giorni gratuito, sul caffè. Questo perché alcuni ristoratori cominciano a chiedere come muoversi in questo senso.”
Doglioni Majer alla domanda: Il caffè è dominato dalle attrezzature made in Italy. Come far conciliare la qualità dei diversi prodotti con la diversificazione dei prezzi di vendita. In effetti ultimamente vediamo delle macchine di caffè che sono delle astronavi: quanto costa al barista, come ammortizzare il costo?
“Innanzitutto, se uno fa un conto economico del prezzo del caffè, l’incidenza del costo dell’equipment è abbastanza ridotto. Anche al crescere, esagerando, raddoppiando la voce di spesa dell’equipment ancora l’incidenza è piccola come risultato finale.
Da noi, il lavoro ingrato dei torrefattori è di dover spesso finanziare la macchina del caffè e quindi finisce per rientrare nel suo conto economico e non in quello del bar e della tazzina. I numeri allora cambiano e così l’incidenza dell’equipment si modifica e assume un peso molto maggiore.
Fatta questa premessa: credo che considerando le macchine, da quella più avanzata a quella più economica, la differenza sta nel fatto che la seconda necessita di una maggiore manualità da parte del barista. Al crescere del valore della macchina, certe funzioni sono delegate all’attrezzatura e il barista diventa quasi un controllore necessario della qualità. La differenza dunque la vedremo nell’operatore: se con la macchina economica è bravo, scrupoloso, seleziona l’acqua, cambia i filtri, la tiene pulita, il risultato finale sarà ancora di qualità. Viceversa, per avere una qualità più alta, bisogna investire su un equipment dal valore maggiore.”
È di nuovo il turno di Elisabetta Pirovano, Iwca: “Come viene valorizzata la donna nella filiera?”
“Parlo per esperienza professionale e personale: sono nata nel mondo del caffè perché mio padre faceva il crudista. Ricordo che la maggior parte dei suoi clienti era composta da uomini. È un mondo molto maschile. Negli ultimi anni sono cambiate le cose: le donne ricoprono diversi ruoli in tutta la filiera. Vendere caffè crudo per me è stato difficile.
L’obiettivo di Iwca in piantagione, è quello di acquistare dalle donne produttrici, che svolgono compiti fondamentali nella famiglia e nella loro attività. È giusto che il verde venga pagato nella misura adeguata a valorizzare il lavoro di queste donne, per dar loro libertà di scelta e continuare a svolgerlo. Come primo progetto, collaboriamo con un’altra associazione per formare donne che hanno difficoltà nell’inserimento sociale e lavorativo.”
Stefano Tiberio rappresentante di Codacons: “Quali i criteri per stabilire i valore giusto da pagare da nord a sud”:
“Si è parlato molto di qualità e di percezione del consumatore finale. Noi cerchiamo di trasmettergli maggiori informazioni possibili. È vero che negli ultimi anni è molto più informato. C’è molta più attenzione sotto alcuni aspetti: il biologico, made in Italy, per esempio. Il problema di percezione però è determinato dalla mancanza di informazioni: in molti casi il consumatore non le ha, e questo gli impedisce di capire cosa stia pagando.
Poi nel caffè un altro punto critico è che il prezzo della tazzina, secondo le nostre verifiche, dipende assai poco dalla qualità del prodotto, piuttosto dalla zona in cui si beve: in piazza San Marco posso bere un espresso mediocre e pagarlo carissimo e al contrario, nella periferia di Milano, trovarne uno di qualità migliore ma a un prezzo inferiore. Questo è un problema, perché il consumatore non capisce più quale valore attribuire a ciò che sta bevendo.
Se fosse informato veramente di tutti gli aspetti che esistono dall’inizio alla fine della filiera, pagherebbe di più senza problemi. Poi da noi, il costo del caffè è anche un fattore psicologico. I dieci centesimi in più restano impressi.
Colmare questo gap informativo è compito di tutta la filiera e delle associazioni. Spesso la politica in questo non aiuta, perché molte delle definizioni che utilizziamo non sono scientifiche, ma dettate dalle politiche dalla nazione e dell’Unione europea: cos’è ad esempio il made in italy? Ognuno ne ha la sua percezione. Ma alla fine la era definizione è politica. Ci vuole maggiore trasparenza.”
Come comunicare al consumatore finale che la tazzina può avere un valore economico diverso?
Paola Goppion si inserisce: “Attraverso gli incontri e la formazione. Faccio riferimento alla mia torrefazione e a Csc, che abbiamo deciso di aprire l’azienda al consumatore finale. Abbattere la soglia tra la produzione, la torrefazione e il consumo, instaura un rapporto di fiducia e fa crescere anche noi. Molti in CSC hanno aperto le porte della propria torrefazione, facendo formazione.
Siamo trasparenti, veri, tangibili. Mi ha sempre colpito che quando si va nei Paesi d’origine, bisogna far pace con sé stessi, perché si è dei visitatori di lusso. Ci sono processi che vanno cambiati e che sono lenti. Oggi è importante andare a vedere queste realtà, ed entrarci in contatto. Cosa ne pensate voi? – rivolgendosi al pubblico -. Siamo tutti consumatori, operatori, le cose che abbiano detto oggi trovano un riscontro in voi che ci ascoltate? Queste sono state giornate bellissime: siamo tornati a incontrarci in un evento a misura d’uomo. Ci siamo fatti dei propositi, abbiamo visto i campionati che hanno trasformato il mondo della torrefazione, riportandola ad esser giovane. Faremo il salto più importante con la nuova generazione.”
Luigi Morello: “Come unire modernità e tradizione del caffè?”
“Il caffè cambia perché cambiano gli usi e i costumi. Il profilo sensoriale si è modificato insieme ai nostri modi di vivere, bere, mangiare. Prima si mangiava in modo più pesante e il caffè doveva esser più forte. Oggi, a volte, disturba questa intensità. C’è bisogno di gusti più delicati da accompagnare ad un’offerta come il sushi. Quindi tutti gli operatori della filiera, seguono queste tendenze. Poi c’è all’interno del settore chi prova a creare questi trend, inventandosi sapori diversi: ora si parla di sentori fruttati, che una volta non si immaginavano. È un bouquet di sapori in accrescimento che cambia con la nostra cultura alimentare.”
Zidarich: “Chi produce macchine per espresso non ha la visione faccia a faccia con i clienti. I torrefattori, sì. Cosa vi chiedono?”
“Come torrefattori stiamo finalmente seguendo un po’ tutta la filiera. Molti avevano abbandonato l’assistenza tecnica, esternalizzando questo servizio rispetto all’azienda. Ma il tecnico esterno corre in funzione della chiamata che riceve e dà la priorità al torrefattore che fa un numero più elevato di richieste. Il periodo pandemico ha fatto sì che emergessero diversi problemi nella reperibilità e trasporto di pezzi di ricambio e attrezzature. Quindi ora si stanno curando anche di più gli aspetti legati alla manutenzione. Il barista era rimasto un po’ abbandonato: ma c’è una parte tecnica su cui non può agire da solo. Se il torrefattore non gli invia un supporto, diventa un problema.
Abbiamo ricevuto novità rispetto a diversi torrefattori che per salvaguardare periodi di buchi di produzione, usano i propri operai per garantire l’assistenza tecnica e rigenerare i macchinari, dando conoscenza ai propri dipendenti di situazioni che avevano ormai dimenticato. C’è quindi di nuovo un maggiore controllo anche sulle attrezzature.”
Cobelli a conclusione dell’incontro Sca Italy:
“Abbiamo ascoltato tantissimi pareri con un filo comune: manca la comunicazione di ciò che facciamo verso il consumatore finale. Sicuramente mi piacerebbe mettere Sca Italia a disposizione di tutti, per cercare insieme di trovare la chiave per arrivare al consumatore. È interesse arrivare a loro, perché sono loro che sostengono la filiera a ritroso. C’è ancora tanto da fare. Comunichiamo. La qualità va comunicata.”
Si è aperto il dibattito al pubblico, inizia il titolare della torrefazione The smoking tiger, Tobia Milla Moss
“Ho iniziato la mia attività due anni fa, in piena pandemia e proponiamo solo specialty coffee. Provo una sensazione lunare rispetto a ciò che ho ascoltato. Tenendo conto del fatto che stiamo in un contesto della Sca Italy e parliamo di specialty, faccio fatica a mettere insieme un pensiero coerente con ciò che conosco di questo prodotto. Perché se dovessi valutare la possibilità di scrivere sui miei sacchetti la dicitura “made in Italy”, considerato che dovrebbe però coincidere con il concetto di miscela, allora i miei prodotti sarebbero tagliati fuori.
Parliamo di specialty quando parliamo di caffè che fanno riferimento diretto a un contadino, a una cooperativa. Credo che dietro a questo concetto di miscela si nasconda il problema chiave del cambiamento che va innescato sul mercato. Il caffè convenzionale non è un prodotto agricolo, ma un titolo finanziario. È una commodity che si acquista sulle borse. Il concetto di miscela risponde a questo criterio finanziario e non di qualità: la miscela nasce perché consente la diversificazione. Con 10 diverse provenienze, riesce più semplice nel momento in cui una di queste è soggetta alla volatilità di prezzo, sostituirla con un’altra senza che nessuno se ne accorga. Se vogliamo che si passi a una cultura del caffè appropriata, il passaggio da fare è farlo diventare un prodotto agricolo. il primo requisito, come per il vino, è chiedere “quale?” Al consumatore che domanda soltanto “un caffè”. Per saperlo, bisogna sapere cosa ci sia dentro la tazzina.”
In replica a The Tiger coffee, Paola Goppion molto brevemente: “Noi facciamo miscele specialty. È necessario esser onesti. È il momento di fare cose speciali per tutti.”
Si alza Alessandro Galtieri:
“Voglio rappresentare ora i baristi. Il problema del prezzo del caffè non è nel ristorante, nell’osteria, ma nel bar, perché è lì che non può costare più di un euro: perché? Il problema è che non è solo la qualità a determinare il prezzo, per non andare sottocosto si devono considerare i costi vivi. La divulgazione che dev’esser fatta, la sensibilizzazione, ha un costo per chi la trasmette. Anche il tempo e la formazione del barista, ha un costo.
Costa l’attrezzatura, la manutenzione, sapere cosa fare per mantenerla performante. Prima che della qualità quindi, bisogna parlare dei costi primi. Ad esempio, del personale: all’origine ci sono delle difficoltà sociali ed economiche, ma la crisi è anche qui da noi. Non riusciamo a pagare a sufficienza i nostri baristi a questo costo. Certo se non facciamo abbastanza quantità non riusciamo a mantenere i nostri operatori. La cosa importante dovrebbe esser quindi focalizzare bene i punti reali su cui intervenire, nell’ambito del bar.”
Si introduce Francesco Sanapo: “Parliamo di caffetteria”
“Ci stiamo perdendo di vista la situazione di oggi. La caffetteria italiana si trova nel declino più totale in termini di qualità, di esperienza, di ambientazione. Dietro questa morte lenta c’è il prezzo del caffè a un euro. Ci ammazza tutti: il professionista, le attrezzature eccezionali, le sedute belle, lo showroom italiano, non si può pagare con un euro a espresso. Si possono fare numeri elevati, ma non c’è tempo di parlare del prodotto. Ecco perché l’eccellenza italiana, che pure esisteva, si è persa. Da italiano mi sento di dire che stiamo facendo confusione: parliamo di specialty e di espresso. ma non sono differenti: io faccio espresso italiano specialty e voglio raccontarlo.”
Impetuosa interviene Magda Katsoura: ”Il dibattito di oggi riflette ciò su cui che mi interrogo da tanti anni, per capire che cosa possiamo fare. Nessun mestiere si può fare senza istruzione, diplomi, università, master, esperienza. Il discorso di aver liberalizzata la caffetteria, aprendola a tutti, avendo un locale accanto all’altro, senza avere formazione di base, ci ha portato alla totale perdita del prodotto in tazza. Noi torrefattori avremo dovuto esser per primi istruiti. Il gruppo triveneto però ha fatto il disciplinare del caffè italiano di qualità: io sono rimasta là, con tanto orgoglio e lo difenderò sino all’ultimo. Voglio che diventi disciplinare dell’espresso in generale. Siamo stati soffocati dai big internazionali, portandoci via tutto il know-how. Facciamo parlare i legislatori: non è solo l’Unesco. Dobbiamo andare al Parlamento e chiedere di disciplinare questi mestieri. Il dottore fa la specializzazione e il barista deve fare lo stesso.”
Cristina Caroli, una breve battuta: “Chiediamoci: questo euro, perché è una soglia? Perché il caffè non è visto come un prodotto di pregio, ma come una commodity. Ha perso di valore culturale. È diventato una merce di scambio anche un tantino volgarizzata. Lo spessore storico, culturale, è quello su cui bisogna lavorare. Il problema è nella comunicazione.”
Si unisce al coro Mario Pascucci: “Tenere aperte le aziende, trasparenza assoluta nei confronti del pubblico che poi sarà più capace nella sua scelta, va bene. Ma lo scoglio più grande che deve affrontare un gestore è combattere con il suo scontrino contro una popolazione intera che non lo emette. il sommerso è enorme.”
Alberto Polojac lancia una provocazione: “Prima del prezzo, c’è il valore del prodotto. Siamo un paese fatto di paradossi e il caffè ne rappresenta l’apice. la domanda è: qual è la soluzione per uscirne?”
E Cobelli ribatte prontamente, chiudendo l’incontro Sca Italy con una sorta di promessa: “Parlandone. Scendendo nelle piazze.”