MILANO – Sayuri Kitami, un passato di 4 anni come pasticcera in un locale francese a Tokyo, la curiosità verso le modalità di consumo all’italiana, la cultura del bar trasmessa da un barista giapponese: “Mi sono resa conto che questo stile di servizio effettuato direttamente al bancone, vedere la reazione immediata dei clienti, era più ideale per me rispetto al rimanere in cucina “e da qui la decisione di diventare lei stessa barista in una caffetteria italiana ancora nella capitale giapponese.
“In quel periodo, il mio sogno di visitare l’Italia ha continuato a crescere finché non sono riuscita ad organizzare un viaggio di 10 giorni durante il quale ho deciso di trasferirmi. Dieci mesi dopo ho lasciato il Giappone per approdare a Firenze. Era il 2018.
Non avevo abbastanza soldi per vivere senza lavorare per un anno, così qualche tempo dopo ho iniziato a distribuire curriculum. Era una situazione difficile per un’asiatica che non parlava bene l’italiano, ma ho avuto la fortuna di ricevere una risposta da Ditta Artigianale, dove ho iniziato a lavorare come cameriera.
Non potevo però rinunciare al mio desiderio di fare esperienza in un bar tradizionale e non appena la situazione pandemica ha iniziato a stabilizzarsi, ho potuto inserirmi in un classico caffè di fronte al Duomo: quello era sempre stato il mio sogno ed ero felice di essere totalmente immersa nello stile di vita italiano.
Dopo aver toccato con mano la cultura italiana dei bar e il mondo italiano dello specialty coffee da una prospettiva giapponese, ho deciso di prendermi una breve pausa e di tornare in Ditta Artigianale per affrontare il caffè da zero e lavorare come barista.”
Kitami, che differenze ha notato dalla sua esperienza di barista, tra i bar italiani e i coffee shop in Giappone, in termini di offerta, di prezzi?
“Ne esistono di significative tra i caffè italiani e quelli giapponesi, dovute alle diverse culture, abitudini e modi di pensare che ci sono tra questi due Paesi.
In primo luogo, i giapponesi amano recepire le novità per poi riorganizzarle e migliorarle.
In Giappone esiste una categoria di caffè tradizionali e molto amati, chiamati “kissa-ten“, che servono principalmente caffe filtrato e dei pasti leggeri. Poi ci sono le grandi catene e, a partire dalla terza ondata di circa 10 anni fa, gli specialty coffee shop sono aumentati rapidamente, soprattutto a Tokyo.
Ma il concetto di espresso non è ancora penetrato in Giappone. A quel tempo, gli specialty coffee stavano iniziando a invadere Tokyo e mi sentivo quasi banale. Proprio per questo sono stata attratta dall’Italia, che è una cultura completamente diversa.
Per gli italiani, caffè = espresso: è il ritmo della giornata e il bar è lo spazio sociale che riunisce le persone.
Per noi giapponesi il caffè è un filtro, da bere seduti o lentamente mentre si legge un libro da soli o si chiacchiera con gli amici. Inoltre, a causa del cambiamento degli stili di vita, il caffè da asporto è la norma nelle città, con caffelatte e cappuccino come bevande più popolari. Un espresso costa circa 2 euro e un cappuccino circa 3,5 euro.”
Il caffè in Giappone come viene trattato, essendo un Paese più tradizionalmente legato al tè?
Kitami: “Il Giappone ha una forte tradizione del tè, ma il caffè fa parte della nostra vita tanto quanto il primo. A parte la qualità, viene bevuto spesso sia a casa che fuori, anche se c’è un divario generazionale. Tuttavia, anche in Giappone è ancora difficile trovare una caffetteria specialty in zone di periferia.”
Le giovani generazioni stanno iniziando a interessarsi al caffè in Giappone? E come lo bevono (con le ricette a base latte, ready to drink, in filtro)?
“Anche le generazioni più giovani sono molto interessate. Per noi giapponesi che abbiamo l’abitudine di bere il caffè filtro, i metodi di estrazione come il V60, l’Aeropress e la French press sono facili da assimilare, e il fatto che gli specialty coffee shop siano vicini nei centri città è probabilmente una spinta in più.
Tuttavia, le nuove generazioni sembrano preferire le bevande a base di latte, come il caffelatte, il cappuccino e il caffellatte freddo, nonché i Signature drink in cui si utilizzano sciroppi aromatizzati e altri ingredienti. In Giappone, invece, la bevanda vegetale non è molto diffusa e nella maggior parte dei casi si usa il latte vaccino.”
Come guardano i baristi e i consumatori giapponesi all’Italia dell’espresso e dei produttori di macchine professionali?
“L’Italia è vista come il Paese del caffè. Tuttavia, mentre conosciamo bene il cappuccino, per chi non ha l’abitudine di bere l’espresso, è visto ancora come una bevanda “amara” e da consumare “in piccole quantità”. Invece le macchine italiane, che hanno una lunga storia alle spalle, sono viste come attrezzature robuste e capaci di preparare un espresso delizioso.”
Kitami, in Italia invece com’è la situazione dal suo punto di vista? I consumatori stanno diventando più consapevoli e curiosi sullo specialty?
“Dal mio punto di vista, l’Italia è un Paese molto lento quando si tratta di specialty coffee. La vecchia cultura del caffè e le abitudini che si sono radicate qui sono molto forti, e questo si riflette anche nella tendenza degli italiani a dare più valore alle cose vecchie che a quelle nuove.
Tuttavia, in Italia ci sono molti prodotti di qualità a livello mondiale, come il vino e l’olio d’oliva, che vengono gustati quotidianamente.
Quindi, se riuscissimo a creare delle opportunità per far sì che le persone si interessino agli specialty coffee, non c’è dubbio che arriverà il momento in cui gli italiani sceglieranno il caffè proprio come scelgono il vino.
Tuttavia, credo che per un barista non sia sufficiente spiegare il caffè alle persone per attuare questo cambio di mentalità.”
La latte art è un must in Giappone come in Italia?
“La latte art è un must anche nelle caffetterie specialty in Giappone, un Paese dove si fa molta ricerca e sperimentazione sul caffè. È vero che la natura meticolosa e paziente del popolo giapponese ha contribuito a nuove scoperte, tecniche e strumentazioni migliori. Un esempio è l’azienda giapponese HARIO.
Poi ci sono diverse figure di spicco che hanno fatto la storia: nel 2014 Hideaki Izaki è diventato il primo asiatico campione barista del mondo e anche Tetsu Kasuya nel 2016 è stato il primo asiatico campione mondiale brewers, presentando la nuova tecnica
che si chiama metodo “4:6” – che modula il gusto dividendo l’acqua dell’infusione in un rapporto 4:6. Il primo 40% dell’acqua di infusione equilibra la dolcezza e l’acidità, mentre l’ultimo 60% regola l’intensità -”.