MILANO – La storia del caffè italiano, quello di qualità, passa attraverso un’altra istituzione del consumo made in italy: i bar. Dell’ Oriental Caffè abbiamo già parlato, ma meglio ancora di questa realtà ne parla il suo stesso gestore, Bonacchi. Una figura poliedrica, che racchiude in sè diverse professioni, dall’autore al barista. Seguendo sempre il fil rouge del caffè di alto livello. Leggiamo l’intervista dal sito lanazione.it.
Oriental Caffè: una storia legata alla tazzina
L’espresso italiano? Aprite bene occhi e orecchie: non esiste più. E il caffè decaffeinato? Basta dire che fa male. Basta anche associare ogni volta l’immagine di una buona tazzina di caffè a un corpo seducente di donna, come se si tentasse di distogliere l’attenzione dal vero “oggetto del piacere”.
Per non parlare della tazzina al bar al costo di un euro
Il caffè buono, ma soprattutto giusto perché socialmente equo, può e deve valere di più. L’imperativo è uno solo, per chi produce, per chi offre e per chi consuma: il caffè è un alimento e come tale va trattato. Torrefattore e barista sono chef, hanno cioè la responsabilità di offrire ai clienti una materia prima che abbia zero difetti.
Assume le sembianze di un vero e proprio studio, quasi un trattato quello scritto a quattro mani da Andrej Godina e Sandro Bonacchi, quest’ultimo pistoiese, titolare assieme al fratello Samuele della Oriental Caffè di Quarrata, che porta il titolo di “Zero caffè – Il diritto alla felicità” (edizioni Medicea Firenze). Un viaggio dalla piantagione alla tazzina, quello stesso viaggio che Bonacchi propone nella sua filosofia e impostazione aziendale, per responsabilizzare la filiera.
“Il caffè non può essere considerato come una qualsiasi commodity – si legge nel libro – il cui prezzo viene fissato nella Borse merci
Diciamo no a un’industria del caffè tostato che guarda prima di tutto ed esclusivamente al proprio profitto a discapito di milioni di famiglie impoverite da un prezzo del caffè verde troppo basso. Oggi la responsabilità sociale di tutti noi inizia dai piatti. Da ciò che mangiamo e beviamo e da quanto consumiamo in termini di risorse naturali per portare avanti uno stile di vita ormai divenuto insostenibile per il nostro pianeta”.
Clima e sostenibilità sono dunque due concetti che non possono essere in alcun modo scissi, neppure a partire da un ‘semplice’ chicco di caffè. Perché “se paghiamo al produttore un prezzo così basso da non coprire nemmeno le spese di produzione, come potrà fare gli investimenti strutturali in piantagione per affrontare gli effetti del cambiamento climatico?”. Ecco che allora il concetto di “buono” ha molto di più a che fare con la natura e il mantenimento del suo equilibrio di quanto ognuno di noi possa pensare.
Il viaggio proposto da Bonacchi in questo saggio è quindi totale e mette a nudo una filiera debole, assai precaria
Una filiera che porta in tazza un caffè il cui gusto è ormai dimenticato da chi lo consuma. “Ma alla fine – si chiede Bonacchi, inserito in un eterno dibattito intorno alla qualità del caffè espresso, sia esso al bar o in capsule domestiche – un buon espresso l’abbiamo mai bevuto oppure no? Forse no, neppure in quei locali in cui vengono servite le produzioni specialty”. Basterebbe esercitare i nostri sensi, gusto e olfatto in primis, per averne la riprova: ecco che un semplice caffè.
E così accade nella maggior parte delle tazzine servite al bar, può evocare ricordi olfattivi e gustativi riconducibili a pelle, cenere, fumo, gusci di noce, nel peggiore dei casi marcio, muffa, straccio bagnato. Il viaggio Bonacchi-Godina continua proponendo un neologismo associato alla degustazione del caffè, quello del “flavore”. Sintesi che evoca e riunisce tutte le sensazioni provate contemporaneamente quando per degustare introduciamo in bocca un cibo o una bevanda. L’idea di felicità poi è strettamente collegata a quella di una buona tazzina di caffè: “Vogliamo dare un’anima alla tazzina di caffè, far riflettere le persone e gli operatori di settore che abbiamo un ruolo, dei doveri, siamo parte di una filiera dove al centro ci deve essere sempre l’uomo”.
La storia “made in Oriental” comincia da molto lontano
Era il 1955 quando Gino Drovandi e Silvana Ercolini vendevano caffè da loro tostato in una bottega aperta nel centro di Lucca. Il trasferimento a Quarrata arriva nel 1996, con il timone passato nelle mani di Samuele Bonacchi che pratica la gavetta alla vecchia maniera: al mattino destinazione Lucca per imparare dallo zio a tostare il caffè, dopo di corsa a bottega a Quarrata.
L’impronta ancor più sociale all’azienda la conferisce Sandro qualche anno più tardi, quando dopo una serie di esperienze sceglie di affiancare il fratello. Decisivo è il contatto diretto con la piantagione, i viaggi in Sud America, quelli cioè che gli permettono di imparare ad “ascoltare” il caffè, facendosi quasi ambasciatore di una cultura del chicco.
Socio e trainer per la Sca (Specialty Coffee Association) e membro fondatore dell’associazione no profit Umami Area di Firenze
Un’associazione che assieme agli altri 26 soci avvia un progetto per la produzione sostenibile di caffè verde nel paese di origine, l’Honduras. Oggi Bonacchi ha battezzato assieme al fratello e a Godina una start up dedicata al mondo del caffè, la B.farm. Prima probabilmente al mondo, nata per dare supporto a tutti i progetti innovativi nel mondo del caffè di qualità e socialmente responsabili. Un modo insomma per spingere e incentivare nuovi modelli di business del chicco. Che tenga insieme qualità e responsabilità sociale in tutte le tappe della filiera