MILANO – Lo specialty per uscire dalla sua nicchia deve esser comunicato al grande pubblico di consumatori. Uno degli attori più attivi su questo fronte è il pioniere Francesco Sanapo, che tutti in queste pagine abbiamo conosciuto negli anni e che ora è riuscito a raccontare la sua passione, a spiegare la storia dietro la tazzina di un buon caffè, ma soprattutto l’uomo dietro l’esperto di origini, per il Gusto di Repubblica. Riportiamo l’articolo di Alfredo Polito.
Sanapo, dal Salento a Firenze, alla ricerca del caffè specialty
Comincia con un’immagine suggestiva l’articolo uscito per Repubblica: Salento, estate, anni Ottanta. Castro, Torre Vado, Pescoluse. All’epoca solo mare e bellezza accecante, e basta. Selvaggia quanto l’abusivismo che la deturpa, in certi casi. Circolano già turisti, ma non sono come quelli di oggi, è un altro mondo: gente del posto, emigranti di ritorno, “milanesi”, che vuol dire genericamente del Nord Italia, tedeschi con sandalo e calzino bianco d’ordinanza. Dietro al bancone di un bar c’è un ragazzino.
Come molti ragazzini del Sud dell’epoca, segue il padre al lavoro durante le stagioni estive. Per imparare un mestiere, non si sa mai. Preme per mettersi davanti alla macchina del caffè ma il padre lo spegne, inflessibile: “Non puoi toccarla, non sei un barista”. Può capitare che un genitore dica qualcosa a un figlio sottovalutandone le conseguenze. O forse proprio per far scattare una scintilla, e vedere se il fuoco s’accende.
Certe volte i sogni perduti dei padri li realizzano i figli, basta che i padri non lo vogliano
E si è acceso, il fuoco.
Continua su Repubblica, il giornalista Polito: Perché quel ragazzino, Francesco Sanapo da Specchia, Lecce, nemmeno vent’anni dopo, nel 2010, vince il Campionato italiano baristi caffetteria: è il miglior barista italiano. “La prima persona che ho chiamato quando ho vinto il primo titolo nazionale è stata mio padre – racconta – ed è stato anche la prima volta che l’ho sentito piangere in vita mia”. Conferma il titolo per tre anni di fila. Poi un anno sabbatico, di studio matto e disperatissimo, per un altro sogno. “Mia moglie pensava che non mi sarei più presentato, che fossi appagato. Ma quando il mio obiettivo è diventato raggiungere il mondiale sapevo che non sarebbe stato facile dirglielo – la preparazione costa fatica e assenza – così le faccio: “Se raggiungo la finale mondiale ti sposo”.
E subito dopo l’annuncio della lista dei Top Six alla finale, la prima telefonata che Francesco riceve è quello della compagna: “Non ti sarai mica scordato di quello che mi hai detto, vero?”.
Quando sul palco di Word Barista Championship lo speaker pronuncia “Francesco Sanapo from Italy” lui alza la coppa al cielo nemmeno fosse Cannavaro
L’australiano che è accanto a lui gli fa: “Guarda che non hai mica vinto, sei arrivato sesto”. “Ma non me ne importava niente – racconta Sanapo – ero già arrivato dove volevo arrivare”. Nessun italiano è più arrivato così in alto, così vicino al tetto del mondo. Ancora oggi. Da quel momento è nato il sogno più grande: sostenuto dal vento della Specialty Coffee Association, grazie alla quale “ho capito che c’era un mondo inesplorato, che il
caffè non è solo l’Italia, ma è patrimonio dell’umanità: c’è la cultura del caffè e ci sono le culture del caffè, declinate per territori: americana, anglosassone, turca, e così via”, Sanapo surfa sulla “Third wave of coffee” mentre l’Italia è rimasta alla prima, varca gli oceani dall’Australia, passa per Etiopia, Brasile, Colombia, Venezuela, Kenya, Uganda. Incontra terroirs e piccoli produttori di caffè che diventano suoi amici, fino a ritornare in Italia, nel cuore di Firenze, per “trasformare il caffè da commodity a esperienza cool, aprendo la via italiana allo specialty coffee”.
Polito su Repubblica: una follia, nell’Italia di non molti anni fa, quella dell’espresso e solo quello, quella convinta di bere il miglior caffè del mondo, quella in cui “un V60, un filter coffee, è uno sciacquone”. Insieme a Patrick Hoffer apre in via dei Neri, nel 2014, il primo caffè “Ditta Artigianale”. “Devo tanto a Firenze – dice Sanapo – perché è una città internazionale che mi ha consentito di raccontare un format internazionale. Per lo straniero un caffè buono a un euro e mezzo è già la normalità. Anche i turisti non sono più quelli di una volta. Nella maggior parte dei casi è gente informata che conosce il food molto meglio di noi italiani”. Benissimo con la clientela internazionale, quindi. Meno con gli italiani, almeno all’inizio.
È la prima settimana d’apertura quando entra un fiorentino di mezz’età, che chiede un
caffè posando la moneta da un euro sul bancone. “Guardi signore – gli spiega Francesco – il caffè qui costa un euro e cinquanta ma adesso le spiego anche il perché”. La reazione scomposta è un’antologia di improperi fatti di maremme e acca aspirate – “ladri” è l’unica che è possibile riportare – e il gesto dei palmi con le dita serrate che si uniscono a mimare la chiusura è l’augurio di buon lavoro. Una bella botta, dopo un investimento non da poco da parte del ragazzo di Specchia non certo nato nei palazzi nobiliari che rendono il paese uno dei borghi più belli d’Italia.
Ma la caffetteria continua a fare strada, anzi apre la strada, e da strada diventa meta
Di ragazzi, di curiosi, di turisti, che s’informano online e già prima di partire programmano una visita a Ditta Artigianale. Sono passati sei mesi quando Francesco è dietro al bancone del bar e dalle vetrine vede passare quel toscanaccio che gli aveva augurato la chiusura. Affida il bancone agli altri e va: “Buongiorno, come sta? Come vede siamo ancora aperti. Se mi dedica cinque minuti le offro un buon caffè, lo prendiamo insieme”. Accetta, il toscanaccio. E Francesco gli racconta cosa sta bevendo, da dove viene, chi lo coltiva e lo raccoglie, come viene tostato. Lo aiuta a sentire gusto e aromi. Oggi è uno dei migliori clienti: entra e chiede “che caffè avete oggi?”.
Continua Polito per Repubblica: sì, è una bella storia, e sembra facile. Ma “vent’anni sembran pochi, poi ti volgi a guardali e non li trovi più”, fa dire Francesco De Gregori a Bufalo Bill. Ci vuole passione, ma anche ambizione, determinazione, costanza, faccia tosta e un po’ di buona sorte.
Solo se si ha tutto questo insieme si può essere Francesco Sanapo. Lottare sempre, senza mollare mai
Nemmeno quando, dopo tutti i sacrifici e i successi, la mamma va a trovarlo a Firenze. Arriva a casa di Francesco, e appena è in camera, lontana da occhi indiscreti, apre la valigia e armeggia furtivamente per nascondere qualcosa: “Mamma, cosa nascondi, cos’hai lì?”, chiede l’ormai maggior esperto di specialty coffee in Italia. Si scopre che è un sacchetto del glorioso caffè Quarta, un’istituzione nel Salento, che la mamma si
era portato da casa come ogni buon salentino.
“È che figlio mio, devo essere sincera, i tuoi caffè non riesco ad apprezzarli”. Troppo fruttato forse, troppo acidulo per chi non ci è abituato. Proprio lei, che a Specchia raduna tutte le vicine a casa sua perché fa il miglior caffè della strada. È allora che l’obiettivo di Sanapo cambia.
Continua il racconto di Polito per Repubblica: essere l’evangelista della “third wave of coffee” non basta, diventa una missione ancora più specifica: “riuscire a portare lo specialty coffee a tutti, compresa mia mamma”. È così che nasce Mammamia, creato proprio con l’obiettivo del bilanciamento in tazza, dove tutte le principali caratteristiche (acidità, dolcezza e amaro) lavorano in armonia.
Il raggiungimento del bilanciamento passa attraverso la ricerca e lo studio di nuove varietà botaniche e nuovi processi di fermentazione che, insieme, donano in tazza una acidità medio-bassa e note intense di cioccolato, ciliegia matura, caramello e mandorla. Perù, Costa Rica, Etiopia e Honduras sono i territori da cui proviene. Catuai, F1, Heirlooms le varietà di arabica da cui è composto. Un caffè “entry level” – si fa per dire – dedicato alla mamma ma anche a tutte le donne del mondo: “tutti i caffè presenti nella miscela sono prodotti da donne eccezionali – racconta Francesco al giornalista di Repubblica – che ho personalmente conosciuto durante i miei viaggi all’origine, avendo la fortuna di apprezzarne il valore e la dedizione al lavoro”.
Perché si fa presto a dire caffè: “è come dire che il vino è fatto con l’uva, non significa niente”, spiega. E dunque Mammamia può essere la porta d’accesso allo straordinario mondo del caffè che, come per il vino, consente di scoprire varietà, territori del mondo, profumi e sapori. E persone, soprattutto.
Come i coltivatori ugandesi – oggetto di un reportage dei fotografi Flavio & Frank – trattati con dignità e rispetto, e che con rispetto ed etica si pongono verso tutta la filiera, lavoratori compresi, coltivando le piante per ottenere il miglior frutto possibile. E poi ci si può aprire al mondo, finalmente, e scoprire che oltre all’espresso e alla moka ci sono almeno altri quattro modi per prepararsi un buon caffè: il V60, filter coffee, da preparare lentamente, come un rito, e godere del suo “blooming”, come un fiore che sboccia e invade la casa di profumi, così come si fa con la Chemex, il cui design affascinante e
l’impugnatura composta da tre anelli di legno la rende ospite fisso del MoMa di New York, o con l’Aeropress.
Oppure la french press, un bricco cilindrico con uno stantuffo che preme su acqua calda e polvere di caffè, la più semplice fra tutte le preparazioni. Per non avere scuse. C’è sempre
tempo per volersi bene e rendere il caffè non un tic, ma un’esperienza e un mezzo in più per conoscere l’uomo e la sua interazione con la natura.