TORINO — «Non basta saper leggere le ricette per essere bravi chef. Gli ingredienti del gianduiotto sono noti a tutti, ma per farlo bene ci vuole sapienza. Ecco, se qualcuno vuole condividere i nostri segreti e il nostro amore per il cioccolato è ben accetto.
Purtroppo abbiamo poco tempo. Se non troviamo un finanziatore serio saremo costretti a chiudere per sempre la nostra attività. Ma la speranza, si sa, è l’ultima a morire. E noi non abbiamo nessuna intenzione di arrenderci».
L’ultimatum
Trenta giorni per salvare un secolo di storia torinese. È il tempo che i legali del Cottolengo hanno dato a Bruna e Giorgio Peyrano per saldare gli arretrati dei canoni non pagati per l’utilizzo del fabbricato alle spalle del negozio di corso Moncalieri 47.
A vederlo, imprigionato in un cortile ottocentesco, sembra un capannone malconcio di mattoni e vetrate. In realtà da decenni quell’edificio racchiude il laboratorio del cioccolato, il «sancta sanctorum» di quell’impresa familiare che ha fatto ingolosire re, principi, attori, artisti e generazioni di torinesi.
I sigilli
Da l’altro ieri, con lo sfratto, sono comparsi i sigilli. Il laboratorio è inaccessibile e la produzione bloccata. «In accordo con i legali del Cottolengo abbiamo il permesso di svuotare i serbatoi degli umidificatori per non compromettere i prodotti finiti. Umidità e caldo sono i nemici del cioccolato» dice la signora Bruna. Per ora il negozio resta aperto. Finché ci saranno scorte.
«Se non saldiamo il conto chiuderemo». Nel ripercorrere le tappe di questa vicenda, contesta la cifra contesa: circa 200 mila euro. «Quell’edificio è un rudere a vederlo da fuori. Il Cottolengo non ha mai fatto nulla. Molti lavori li abbiamo fatti noi. Non meritiamo un trattamento del genere. Anche perché in ballo ci sono dieci famiglie».
Le vetrine sono piene di alpini, di foglie al cacao amaro, di gusci al cioccolato al latte. Il libro degli ospiti riporta gli ultimi commenti dei clienti. Ma a leggere le vecchie lettere di apprezzamento appese alle pareti del piccolo negozio pervaso di profumi, ti coglie un senso di malinconia.
Per una storia familiare ad un passo dal tramonto, dopo tante vicissitudini. Perché se così fosse, sarebbe una doppia sconfitta.
Bruna e Giorgio Peyrano hanno ripreso le redini dell’azienda tra il 2010 e il 2011, dopo il fallimento della società legata al gruppo napoletano Maione che nel 2002 aveva rilevato marchio, negozi e laboratorio.
Più o meno alla soglia dei 70 anni hanno rinunciato agli agi della pensione per rimettersi in gioco. Rispolverati segreti ed entusiasmo, hanno riaperto le serrande, riproponendo quella tradizione tutta torinese. Affrontando un impegno economico non da poco. Forse, a giudicare gli eventi di oggi, non sufficiente.
Il rilancio
«Nel riaprire l’attività abbiamo affrontato costi imprevisti con i macchinari. Forse abbiamo fatto qualche errore. La crisi non ci ha aiutato. E Torino ci ha un po’ abbandonato». Cavalcando l’entusiamo, come due giovanotti, sposati da oltre mezzo secolo, hanno riassunto i vecchi dipendenti.
A cominciare dal marchio, scritto con la calligrafia della signora «Angiola», mamma di Giorgio. Adesso si trovano in un angolo. «Non abbiamo figli. Ma vogliamo condividere con qualcuno la nostra sapienza. Con qualcuno veramente interessato. Non con quegli sciacalli che hanno cercato di comprare la nostra storia per pochi soldi»
Massimiliano Peggio