ROMA – Un’altra stella rischia di spegnersi nel centro storico della Capitale. Una piccola perla di storia e di cultura come il Caffè Greco potrebbe perdere la propria natura, o addirittura chiudere, lasciando a Roma solo il ricordo della sua ‘grande bellezza’.
Tappa obbligata per i turisti che si lasciano alle spalle la scalinata di piazza di Spagna, lo storico locale di via dei Condotti in 250 anni di storia ha ospitato poeti e artisti che nell’800 venivano in Italia per completare il loro ‘Grand Tour’. Chiamato così per via delle origini levantine del suo primo proprietario, Nicola della Maddalena, oggi è al centro di una disputa burocratico-finanziaria tra i due proprietari del caffè.
Da un lato l’Ospedale Israelitico, che da 108 anni detiene le mura del locale, vorrebbe attuare un sostanzioso aumento del canone d’affitto e dall’altro l’ingegnere Carlo Pellegrini, proprietario da 17 anni della società Antico Caffè Greco Srl, che lo considera insostenibile.
Nel mezzo c’è il sospetto che il locale possa far gola a una grande multinazionale del lusso. Tra i nomi che circolano ci sono quelli di Armani e Moncler. Ma non solo. Sulla società Antico Caffè Greco pende una sentenza del tribunale che impone lo sfratto dal prossimo mese di marzo.
La doppia tutela del Ministero dei Beni Culturali
Sfratto che, al momento, è ineseguibile perché il caffè è sottoposto a un duplice vincolo del Mibact. “Nel 1953 il locale è stato sottoposto a tutela dal Ministero dei Beni Culturali con un decreto: già allora il sovrintendente scrisse al ministro Segni perché temeva potesse scomparire per colpa della speculazione”, ci spiega Pellegrini mentre lo intervistiamo seduti nello stesso divano dove lo scrittore Christian Andersen amava sorseggiare il suo caffè.
“Per evitare la sparizione del caffè occorrerebbe una duplice tutela all’ente proprietario dell’immobile e all’intestatario della licenza d’esercizio, così da vincolare gli ambienti e renderli immobili per destinazione i vari elementi che compongono l’arredamento”, si raccomandava nel ’53 l’allora sovrintendente nella sua lettera.
E così è stato finora. Una doppia tutela che, ci spiega la vicepresidente di ‘Italia Nostra Roma’ Vanna Mannucci, impedisce che il caffè possa essere trasformato in un McDonald’s.
Come in un museo
“Il bene materiale del caffè sono le opere d’arte, il bene immateriale è la sua funzione, la tradizione, il modo in cui vengono accolti i clienti e l’atmosfera che si respira. Qui sono vincolate entrambe. Ed è ovvio che i dipendenti di un McDonald’s non potrebbero preservare la gloriosa storia del caffè greco”.
Sia ben chiaro, qui un caffè consumato a tavolino, costa 7 euro, proprio perché questo è un locale unico nel suo genere.
“È come un museo per il quale i visitatori non pagano il biglietto. Qui Gogol ha scritto parte delle ‘Anime morte’ e Guttuso ci ha dedicato due sue opere”, racconta con orgoglio Andrea Potenza, direttore del caffè. Una carica, questa, che fu di suo padre e, prima ancora, di suo nonno. Si può dire che, nonostante in 250 anni si siano succeduti vari proprietari, il caffè è rimasto sempre ‘a conduzione familiare’. Ora il rischio è che la tradizione venga meno nel caso in cui il locale finisse nelle mani di una multinazionale.
La possibile chiusura del Caffè Greco
“Capiamoci, noi soldi ne facciamo tanti. Siamo un’azienda in attivo che nel 2016 ha fatturato 3 milioni di euro ma non vendiamo gioielli. Siamo pur sempre una caffetteria”, spiega pacatamente l’ingegner Pellegrini, che rivendica gli sforzi fatti finora per risollevare l’azienda dalla crisi del post 11 settembre.
“Abbiamo reso questa società la più florida possibile, proprio per far fronte ad eventuali aumenti del canone di affitto”. Ma dall’altra parte c’è un muro di gomma. “Fate pure tutte le offerte che volete, ma le respingeremo, perché alcune griffe ci hanno offerto cifre a cui voi non arriverete mai’”, avrebbero detto dall’Ospedale Israelitico. Ma l’arrivo di una multinazionale potrebbe, paradossalmente, portare alla chiusura del locale, come è successo per lo storico Caffè Aragno di Via del Corso.
“L’ospedale sta facendo pressione per spingerci a vendere. Certo, io posso anche decidere di smettere la mia attività ma, a quel punto, il locale resterebbe chiuso. Viceversa, se vendo, la grande griffe può anche far finta di mantenere il caffè così com’è ma per pagare un affitto di 1 milione di euro dovrebbe vendere qui i suoi prodotti e non può. Qui non si può toccare uno spillo, tutto è vincolato.
A quel punto, il ministero potrebbe espropriare il locale e chiuderlo”. Una chiusura che arriverebbe a pochi anni di distanza da quella del Caffè della Pace e che segnerebbe, per dirla con le parole del fotografo Rino Barillari, un nuovo “lutto per Roma e per il nostro Paese”.
Alessandra Benignetti, Francesco Curridori