ROMA – La storia del caffè che aiuta alla riabilitazione delle persone incarcerate, è lunga e fatta di tanti esempi. Un altro modo di intendere la bevanda come “sociale”, proprio per la sua funzione che va oltre tutte le differenze e le difficoltà. Stavolta riportiamo il modello del Caffè Galeotto di Roma, dal sito ilmessaggero.it.
Caffè Galeotto: superare i confini del carcere
«Un chilo in grani per cortesia, forte e intenso», chiede Aldo, un signore sulla cinquantina, al ragazzo del negozio dove si vende il “ Caffè galeotto ”. Quello che creano i detenuti del carcere di Rebibbia. Il cliente lo ha assaggiato qualche tempo fa e, da allora, viene qui ad acquistarlo. Poi torna a casa e se lo macina da solo nella sua macchina. Per apprezzarne il gusto al meglio quando lo beve.
Tra le mura della piccola bottega “a un passo” dalla casa di reclusione romana, ci si ritrova in un microcosmo colorato
Sulle pareti ci sono la Banda Bassotti e il commissario Basettoni «che la controlla», racconta, scherzando, Mauro Pellegrini. A capo della cooperativa sociale “Panta Coop”. Che, dal 2000 a oggi, ha aperto diverse imprese nella Casa Circondariale e contrattualizzato centinaia di reclusi.
Tra i suoi dipendenti, 13 lavorano nella torrefazione interna dove nasce il “Caffè galeotto”, mentre uno, Ferdinando, 36enne di Latina, si occupa di venderlo. Ogni mattina è lui a uscire dal carcere. Compiendo non più di 50 passi ed entrare nel negozio. Dove trascorre la giornata in compagnia dei clienti che «vengono a trovarti con piacere.
Qui la gente ti parla perché ha voglia di farlo e nascono rapporti veri. Non si tratta di amicizie forzate», racconta il detenuto
Proprio lui, quando in bottega ha preso il posto di Lucio, un ex recluso che oggi è tornato dalla famiglia a Napoli, ha voluto dipingere sul muro vicino alla cassa un pezzo di pentagramma con le note e la scritta “Musica… Evasione”.
Il sogno di Ferdinando, infatti, è quello di incidere un album insieme a dei big (come Stefano Di Battista) e a degli artisti di altre culture. Per abbattere i pregiudizi, innanzitutto. Il titolo dovrà essere qualcosa come “A un passo dalla libertà e dal carcere”, come la bottega del caffè dove si ritrova a fare il venditore. Accanto a lui, però, c’è sempre la sua fisarmonica.
Spesso la prende e inizia a suonare il “Libertango” dell’argentino Astor Piazzolla
«perché se anche non posso raggiungere la libertà fisicamente, lo faccio con il pensiero, che è più forte», precisa Ferdinando, dentro ancora per quattro anni. Intanto, prende lezioni private di musica, studia Lettere e Filosofia all’università e pensa a quella grande proposta ricevuta dal Direttore dell’Orchestra di Piazza Vittorio. Che lo vuole in futuro come membro della band.
D’altronde proprio Mauro, suo capo da anni, lo definisce un “detenuto modello”. Per questo è stato felice di accompagnarlo nella sua prima volta in uscita. Insieme, sono andati all’Auditorium di Roma. Era lo scorso giugno e veniva presentato un documentario con alcune musiche composte da Ferdinando.
Pochi giorni dopo, insieme a Marian, un violinista che sta scontando la pena, il giovane di Latina si è invece esibito davanti a Mogol. Un momento di cui conserva una foto incorniciata e appesa nel negozio del ” Caffè galeotto ”. «un prodotto processato manualmente a tostatura artigianale e venduto a chi è sensibile alle nostre tematiche», spiega Mauro, che ha voluto la torrefazione di comune accordo con le istituzioni carcerarie.
Al Caffè Galeotto riparte la vita
«Andiamo nella stessa direzione e lavoriamo per un obiettivo comune che è la recidiva zero – aggiunge l’imprenditore – Insegniamo dei mestieri ai detenuti da 20 anni. I dati ci dicono che i risultati sono positivi. Solo uno dei “nostri” è tornato in carcere dopo essere uscito», aggiunge il capo di “Panta Coop”.
Dalla fine del 2012 a oggi, i passi compiuti sono molti. La torrefazione è stata aperta accendendo un mutuo, senza soldi pubblici. E, dopo anni di impegno, formazione e dedizione, il bilancio è positivo. Per questo, entro la metà del 2020, si acquisteranno le macchine per incapsulare e incialdare.
«In tal modo ci renderemo autonomi. È stato un percorso lungo – ammette Mauro che, all’inizio, di questo mestiere non sapeva nulla – Sono venuti a formarci i migliori torrefattori italiani. Così abbiamo studiato tutte le fasi della lavorazione del caffè e fatto ricerca sulla materia prima».
Oggi, le inconfondibili miscele che portano nomi come “Il ricercato”, “L’evaso” e “Il latitante”
Sono arrivate ben oltre i bar delle carceri di Rebibbia e Regina Coeli. A Roma si trovano nelle case dei privati, nei bar dell’università La Sapienza (a Lettere e Filosofia), di via dei Castagni e di Tor Sapienza. Il “ Caffè galeotto ” lo acquista persino una piattaforma di eccellenze italiane a Parigi. Si chiama “Le bouchon de batignolles”.
Servito nelle sue tazze brandizzate, nel tempo è stato assaggiato da nomi illustri come Papa Francesco, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la sindaca di Roma Virginia Raggi, chef Rubio (cliente del negozio) e Gianni Rivera. «Ci viene a trovare spesso anche un santone senegalese che vive a Ostia per acquistare una nostra versione a base di jarr, il pepe nero di Guinea, e fiori di garofano. Così racconta Mauro parlando del caffè touba. Nella torrefazione del carcere, il responsabile oggi è Gennaro.
Un napoletano di 46 anni che ormai fa tutto da solo e conosce ogni segreto del mestiere. Il gruppo di lavoro va dai 29 ai 50 anni. E tra gli operai ci sono un volenteroso carrozziere romano e Bobo, appena 27enne. In officina solo la mattina perché il pomeriggio “va a scuola”.
Loro, come tutti gli impiegati della cooperativa, sono contrattualizzati con busta paga
«Il detenuto, non gravando più sulla famiglia per le sue spese quotidiane, acquista autostima e dignità», precisa Mauro. Che da 20 anni si occupa di offrire un tipo di formazione e occupazione ai reclusi, che sia spendibile quando si torna liberi.
«Perché da solo non ce la puoi fare», irrompe Pino, oggi fuori dalle sbarre. Calabrese di 56 anni, è lui a guidare il furgone del “Caffè Galeotto” per le consegne in città: «In carcere si perde l’uso della parola e anche il contatto con la realtà. Mi sono rimesso al volante con questo camioncino. Che bello fare la fila al semaforo. Per me, e lo so che voi non potete capire – sospira Pino – è un lusso, un grande privilegio».