MILANO – Per i lettori di queste pagine l’argomento Robusta di qualità non è del tutto nuovo: è recente il movimento che vede anche questa varietà botanica rivalutata come materia prima in grado di restituire una tazzina di livello. La Fine Robusta si sta facendo strada tra gli addetti ai lavori (ne abbiamo parlato con il caffè esperto Andrej Godina qui).
Ma questo cambio di prospettiva esce dalla nicchia.
Uno degli elementi fondamentali per la classica miscela italiana, finalmente sta conoscendo una nuova vita anche per un pubblico più ampio. Ne è la dimostrazione pratica un articolo uscito sulla rassegna stampa del Corriere della Sera, firmato da Alessandro Trocino, che punta proprio su questa nuova percezione di questa varietà botanica.
Robusta: non più una pianta di serie B
Spesso la Robusta è stata relegata ad un campionato di bassa lega anche dagli esperti. Come spiega l’articolo del Corriere: “A riassumere il loro pensiero ci ha pensato Kenneth Davids, caporedattore di Coffee Review, in El Salvador nell’ottobre 2013: «Gli arabica sono divini e giusti; i robusta sono satanici e malvagi».”
Una forte contrapposizione qualitativa che spesso però i consumatori neppure conoscono, perché inondati da operazioni pubblicitarie che raccontano ben poco dell’effettivo contenuto dei prodotti che trovano tra gli scaffali dei supermercati.
Se la maggior parte dei professionisti si concentra sulla terza onda dello specialty, è pur vero che esiste un mondo legato alla Robusta che può superare la dicotomia che così nettamente è stata impostata rispetto all’Arabica, andando oltre le posizioni radicali che propendono verso una parte o l’altra.
L’articolo sul Corriere della Sera prosegue citando un episodio che chi lavora nel comparto conosce bene – ai tempi ha aperto un dibattito di cui ancora oggi si sente l’eco -: “C’era una vecchia puntata di Report (diverse in realtà, nel 2014 e 2019: ne abbiamo riferito qui), tutte dedicate a demolire il vanto di superiorità dei caffè napoletani – … – che aveva spiegato che gli espressi del Gambrinus e di diversi altri locali partenopei non sono granché e, anzi, molto inferiori ai caffè del Nord, da Trieste a Forlì. Con l’ausilio del temibile Andrej Godina, dottore in Scienza del Caffè e Assaggiatore, Bernardo Iovene si era divertito a fustigare il pregiudizio della superiorità della tazzulella ‘e cafè napoletana. Tutta alimentata a miscele di robusta. A parte il consueto coro di indignados, si era levata però qualche timida voce che obiettava: «A Napoli il caffè ci piace così, con un sapore deciso e forte. E quindi?».”
Quello che sostiene il giornalista è che se il gusto va educato, ogni palato è sovrano
E insomma, per dirla alla vecchia maniera: de gustibus disputandum non est.
Nell’articolo viene citato anche un altro testo, firmato dalla scrittrice e registra Alina Simone su The Atlantic, che dopo il suo secondo tentativo in Vietnam, è riuscita ad assaggiare una Robusta diversa da quella a cui era abituata.
Così scrive su Alina Simone ripresa dal Corriere della Sera: “Il produttore Bang Duong le ha spiegato: «La maggior parte del caffè robusta in Vietnam viene raccolto ancora verde, ma il caffè ottenuto da chicchi acerbi non ha un buon sapore. Poiché il costo della manodopera è salito alle stelle, molti coltivatori di robusta possono permettersi di raccogliere solo una volta. Raccogliere in anticipo aiuta anche i coltivatori a evitare il problema dei ladri».”
E’ per questo che Duong ha scelto di costruire una sua serra per avere un maggior controllo del processo di essicazione e di lavorazione solo delle drupe rosse raccolte. Senza l’aggiunta di riso di vino in fase di tostatura o altri aromi.
Un’altra voce a favore della Robusta
Sull’articolo del Corriere della Sera emerge un altro elemento a favore di questa varietà botanica, che oltre a non dover invidiare niente all’Arabica in termini di qualità in tazza, ha anche il gran vantaggio di esser resistente al cambiamento climatico.
Citando lo studio pubblicato su Plos One, questo fenomeno potrebbe determinare la riduzione di oltre la metà delle aree dove si coltiva l’Arabica nell’arco dei prossimi tre decenni. Questo porterebbe ad un aumento spropositato degli specialty entro il 2050, che d’altra parte però potrebbero subire anche un abbassamento di qualità aromatiche e gustative.
E qui scende in campo proprio la tanto bistrattata Robusta, con la sua resilienza rispetto agli sbalzi di temperatura e alle malattie delle piante, proprio in virtù del suo più alto contenuto di caffeina.
La rivoluzione, così come dice l’articolo sul Corriere della Sera, inizierebbe proprio dal Vietnam e dalle nuove generazioni di farmer che si stanno applicando per migliorare le caratteristiche organolettiche della pianta.
Questo nonostante continuino a farsi sentire gli irriducibili sostenitori dell’Arabica, che riprende il Corriere della Sera: “Kenneth Davids, autore della guida “21st Century Coffee”: «Anche i robusta molto puliti sono troppo amari, con troppa frutta secca e troppo poco cioccolato e frutta per essere una bevanda attraente di un’unica origine». Arno Holschuh, responsabile del caffè della Bellwether Coffee di Berkeley, dice, ironico: «È come dire: il futuro sarà così terribile che dovrete imparare ad amare la robusta».
Ma così come fa ben presente in chiusura l’autore dell’articolo Alessandro Trocino, esistono dei fatti che inducono a pensare che la Robusta sia effettivamente la strada alternativa per un caffè del futuro che va incontro ai gusti “acquisiti”. E così spiega Alina Simone: (Il caffè) lo sputiamo da bambini, ci sforziamo di apprezzarlo da adolescenti e passiamo la vita da adulti a feticizzarne i bouquet. Anche la maggior parte dell’arabica ha un sapore pessimo, mi ha fatto notare Kenneth Davids, a meno che non venga coccolata, massaggiata e fatta esplodere con un livello spettacolare di ingegno umano. Cosa succederebbe se applicassimo lo stesso livello di ossessione alla Robusta?».
Una domanda che vogliamo lasciare aperta, per chi tra i lettori volesse cogliere la sfida e trovare una risposta critica a questa nuova visione della Robusta.