lunedì 23 Dicembre 2024
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Rito del caffè: dalle guerre mondiali, ai surrogati, la storia dietro la tazzina

Se in un primo momento il caffè faceva parte della razione giornaliera del soldato del fronte (15 grammi di caffè macinato e 20 grammi di zucchero nel 1915) con il proseguire del conflitto la razione giornaliera iniziò a diminuire fino a sostituire il caffè con surrogati come cicoria, fichi, carrube, ghiande, orzo, segale e malto. Il caffè fu ritenuto un bene non di prima necessità

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MILANO – Quest’anno ci siamo avvicinati alla candidatura per l’Unesco, presentando il rito del caffè con tanto di dossier per ottenere il riconoscimento di patrimonio immateriale dell’umanità. Un percorso che è stato frutto di anni, alcuni anche duri, dove la qualità della bevanda non è stata sempre proprio ai massimi livelli. Leggiamo un po’ di storia della tazzina dall’articolo di Michele Sergio su ilroma.net.

Il rito del caffè dalla guerra ai salotti borghesi

Da “buona abitudine” dei soldati in guerra a momento di relax per borghesi e aristocratici frequentatori di prestigiosi locali e poi le “contaminazioni” – non sempre di qualità – che in ogni epoca comunque hanno fatto del caffè una bevanda irrinunciabile per gli italiani che ancora oggi lo bevono più volte al giorno: sia al mattino appena svegli che dopo pranzo, l’importante è che il caffè sia di prima qualità. Non tutti sanno, però, che in Italia non sempre la qualità è stata la stessa.

Durante le guerre mondiali, infatti, c’è stata prima una scarsità di materia prima e successivamente – quando non arrivavano più i sacchi di caffè – si è avuta la diffusione in Italia dei cosiddetti succedanei nel caffè. In questo breve excursus storico spiegheremo perché gli italiani bevono il caffè al mattino, perché si è diffuso il caffè d’orzo e perché Totò definiva “ciofeca” un caffè di pessima qualità.

Ma andiamo con ordine

Nell’Ottocento e durante la Belle Epoque si registrò una importante richiesta di caffè da parte degli italiani. Lo si beveva, infatti, sia negli importanti e prestigiosi Caffè della Penisola sia nei salotti della borghesia e dell’aristocrazia. Con lo scoppio della prima guerra mondiale, però, le risorse e le energie della nazione si concentrarono principalmente per sostenere lo sforzo bellico.

Se in un primo momento il caffè faceva parte della razione giornaliera del soldato del fronte (15 grammi di caffè macinato e 20 grammi di zucchero nel 1915) con il proseguire del conflitto la razione giornaliera iniziò a diminuire fino a sostituire il caffè con surrogati come cicoria, fichi, carrube, ghiande, orzo, segale e malto. Il caffè fu ritenuto un bene non di prima necessità. Solo dopo la disfatta di Caporetto nel 1917 (e grazie agli aiuti alimentari ed economici degli americani) lo Stato Maggiore rivalutò l’importanza di bere il caffè e con una circolare del novembre dello stesso anno impose che fosse consegnato a tutti i fanti del fronte una quantità di circa 8 grammi di caffè e 10 di zucchero.

La guerra fu vinta, quindi, anche grazie alla caffeina ivi contenuta perché la sua assunzione aiutava i soldati ad essere più vigili e reattivi. La curiosità? Finita la guerra i soldati continuarono a bere il caffè al mattino usanza che è tutt’oggi praticata dagli italiani. Dopo la guerra lentamente si tornò alla normalità e ripresero le importazioni di caffè nel nostro Paese. La politica fascista e la successiva invasione e conquista dell’Etiopia nel 1936 portò la Società delle Nazioni (soprattutto su pressione inglese) a comminare le sanzioni economiche all’Italia.

E fu così che nel nostro Paese si iniziò a parlare autosufficienza economica perché all’Italia furono applicate limitazioni importanti alle importazioni. E perciò a partire dalla metà degli anni ’30 il caffè che arrivava nel nostro paese proveniva principalmente delle colonie italiane del Corno d’Africa (insieme a banane, tabacco, cacao e tanti altri prodotti esotici). Con l’entrata dell’Italia nella seconda guerra mondiale il caffè divenne sempre più raro e costoso e con la perdita dell’impero coloniale nel 1941 il caffè divenne rarissimo.

Fu così che gli italiani iniziarono a bere i suoi succedanei: caffè d’orzo, di segale, di malto, di cicoria, di fichi e addirittura di carciofi

Il Governo incentivò il consumo di queste bevande mentre al tempo stesso scoraggiava se non addirittura vietava il consumo di caffè. Ma che sapore avevano queste miscele? Difficile dirlo anche perché venivano preparate sempre in modo diverso e con percentuali di surrogati differenti. In linea generale comunque i più anziani ricordano una bevanda acquosa, dal gusto ed un aroma mediocre e, ovviamente, priva della carica della caffeina. Solo con la fine della seconda guerra mondiale e con l’avvento del boom economico degli anni ’60 in Italia saranno messi da parte definitivamente i suoi surrogati e gli italiani torneranno a bere solo il caffè.

L’unico surrogato sopravvissuto al passare del tempo è quello d’orzo ancora apprezzato da chi non beve caffè o non tollera la caffeina. Grazie ai racconti e alle testimonianze il ricordo di questi momenti difficili e della scarsa bontà del caffè resterà a lungo nella memoria degli italiani e soprattutto dei napoletani che più di tutti forse tengono alla bontà del caffè.

Il rito del caffè con il grande Totò

Napoletano e amante del buon caffè, conierà un termine che utilizzerà nei suoi sketch: “ciofeca” proprio ispirato ai surrogati del caffè che beveva durante le guerre mondiali. Entrato nel dizionario della lingua italiana questo sostantivo indica proprio un caffè di scarsa qualità. Ancora incerta è l’etimologia probabilmente una fusione tra i termini cicoria e carciofo (o fichi). Solo un figlio di Partenope poteva inventare un termine negativo sul caffè. È non poteva essere diversamente. Perché, come disse una volta il grande Eduardo, i napoletani “possono rinunciare a tutto tranne che ad una tazzina di caffè”. Quello buono però!

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