Riccardo Illy: dai 372 milioni di ricavi del 2011 ai 516 del 2017, la storia dell’azienda

La parola a Riccardo Illy, Presidente del Gruppo illy: "Il piano serve per accelerare la crescita e portare in borsa le attività diverse dal caffè"

0
370
polo del gusto riccardo illy
Riccardo Illy è a capo del Polo del Gusto, la sub-holding che si occupa degli asset non legati al caffè

MILANO – Riprendiamo un articolo e un’intervista che sono stati pubblicati su Affari&Finanza di Repubblica. Protagonista di entrambi i testi, Riccardo Illy, che riveste eccezionalmente le vesti di insegnante. Intervistato dal giornalista Luca Piana.

Infatti, ha appena finito una lezione in una summer school organizzata a Verona da ItaliaInnovation, a cui partecipano 18 studenti selezionati dalle più prestigiose università del mondo, Harvard, Stanford, Sciences Po, Bocconi.

Riccardo Illy e la sua passione

Lo sguardo gli si illumina quando parla dei metodi unici con cui l’azienda produce caffè e cioccolato. Diventa più affilato quando gli si domanda quanto è difficile andare d’accordo, in una famiglia così numerosa.

Non si tira indietro, però

E rivela: sta lavorando all’ingresso di un partner finanziario in una nuova holding, dove verranno raggruppate le attività diversificate, destinate poi a essere quotate.

Un piano da attuare presto, nel 2019, prima che Mario Draghi passi la mano in Bce e su cui in famiglia. «il consenso è elevato, anche se non completo», spiega.

Riccardo Illy parla della nuova holding per tè e cioccolato con un partner finanziario entro il 2019

L’inizio della chiacchierata si concentra sul business dell’azienda, che Illy, 62 anni, una passione per la politica che in passato lo ha portato a fare tra l’ altro il sindaco di Trieste e il deputato, guida in qualità di presidente della holding di famiglia, la Gruppo Illy.

I numeri dicono che il vostro gruppo è cresciuto passo dopo passo. Dai 372 milioni di ricavi del 2011 ai 516 del 2017. Come vi muovete?

«Con il principio che insegno nella summer school: la qualità “disruptive“, dirompente. Vuol dire quattro cose: una qualità superiore percepibile anche da chi non è un esperto; le migliori materie prime esistenti sui mercati; un processo produttivo unico e incompatibile con quello dei concorrenti, la sostenibilità».

Qual è la differenza fra una vostra capsula di caffè e il leader di mercato, la Nespresso?

«Nelle capsule, come in tutte le confezioni, togliamo l’ aria e la sostituiamo con un gas inerte, azoto o anidride carbonica, che mantiene a lungo gli aromi e consente di fissare quelli volatili nell’olio contenuto nelle cellule di caffè.

Per produrle utilizziamo cinque brevetti. Come la membrana interna dello stesso materiale della capsula, che favorisce l’ emulsione tra l’ acqua e l’ olio».

Perché parla di processo incompatibile con quello dei concorrenti?

«Glielo spiego con l’ esempio del cioccolato Domori.
Saprà che il cacao della specie migliore, il criollo, è difficile da trovare. Noi abbiamo 200 ettari di coltivazioni in Venezuela.

La tostatura avviene a bassa temperatura e la fase di raffinazione, chiamata “concaggio”,  per un periodo ridotto: otto ore a 45 gradi. Rispetto alle 72 ore a 85 gradi della gran parte degli altri produttori.

Questo è possibile grazie alle innovazioni ideate dal fondatore, Gianluca Franzoni, che consentono di non disperdere gli aromi.

Se mettesse il nostro cacao nel processo produttivo dei concorrenti lo rovinerebbe, se utilizzasse quello più comune – il “forastero” – nelle nostre macchine, non riuscirebbe a eliminare gli odori legati alla minore qualità».

L’ altra faccia, però, è che si sale un gradino dopo l’alto, senza balzi in avanti.

«È vero, è un lavoro lungo, che richiede anche un adeguato storytelling per raccontare ai clienti quello che stai facendo. La situazione di Domori, in cui siamo entrati nel 2007, mi ricorda i miei primi passi in azienda, negli anni Settanta.

Nel caffè avevamo volumi simili a quelli attuali nel cioccolato. Quando parlavamo con i capi area ci dicevano che non ci conosceva nessuno, che era difficile vendere con prezzi così alti rispetto a quelli della concorrenza.

Eppure oggi nel caffè abbiamo raggiunto ricavi per 466 milioni, quando nel 2011 eravamo a 341. È un modello di crescita che richiede i suoi tempi. È come un bambino, che deve farsi l’ ossatura».

Se foste più grandi vi muovereste più rapidamente? Penso al tè Dammann: il marchio è molto forte ma i negozi ancora pochi

«Non così pochi in realtà: sette a Parigi e altrettanti nel resto della Francia, due in Giappone, due in Corea del Sud, uno qui a Milano. Il punto è che, fra quelli aperti finora, solo uno – a Versailles – non è andato bene e ha chiuso, ed era peraltro affidato a un licenziatario.

I negozi funzionano se soddisfano tre requisiti: la location dev’essere giusta, la buonuscita per i precedenti occupanti bassa, l’ affitto ragionevole.

Se manca una condizione, l’insuccesso è garantito. È facile innamorarsi di una location e strapagarla, ma la crescita è sostenibile solo se non si sbagliano passi. Per cui la mia risposta è no, non sono le risorse finanziarie che ci mancano. Premere troppo sull’ acceleratore fa prendere decisioni affrettate».

Vi hanno offerto 100 milioni per vendere?

«Non faccio cifre. L’ ordine di grandezza è quello. A noi interessa com’è cambiata da quando siamo entrati, nel 2007. Faceva il 70 per cento dei volumi in conto terzi, ora vende il 90 per cento del tè con il proprio marchio».

Ripensamenti sulle acquisizioni? Domori non ha mai generato profitti.

«È vero, abbiamo faticato a trovare la formula giusta ma nel 2017 era l’ unica controllata in perdita e quest’ anno prevediamo di raggiungere il pareggio.

Stiamo mettendo a punto il portafoglio prodotti, nel negozio aperto nel centro commerciale di Arese sperimentiamo un gelato innovativo.

Abbiamo preso anche una quota nella Fgel di Firenze, che ha aperto sette bar-gelaterie con il marchio Bonetti, all’interno di centri commerciali e outlet.

Forniamo caffè, tè e cioccolato e prevediamo prossime sinergie anche con Agrimontana, la partecipata che produce frutta conservata e prodotti per le gelaterie».

Nel vino siete entrati nel 2008, acquistando la Mastrojanni di Montalcino

È un settore dove i gruppi più grandi stanno intensificando le acquisizioni. Pensate di fare altrettanto?

«Sì. Prevediamo di raggiungere i 100 milioni di fatturato sia con Dammann che Domori, e poi reinvestire nel vitivinicolo. Che a livello globale fattura più di caffè, tè e cioccolato messi insieme».

Avete già considerato possibili acquisizioni?

«Non le abbiamo cercate, ci sono capitate e le stiamo guardando. Ma si corre lo stesso rischio delle boutique, innamorarsi e pagare troppo.

Scherzando, dico sempre che è un piano che metteranno in atto i nostri nipoti, un po’ come noi abbiamo fatto con la frutta conservata, il cioccolato e il vino.

Settori nei quali già mio nonno aveva tentato di espandersi, per poi abbandonarli».

La lezione sul non strapagare l’avete appresa con Mastrojanni? L’ avete pagata circa 16 milioni, e ancora oggi ne fattura poco più di due

«Transazioni effettuate dopo hanno visto prezzi ancora più elevati. La valutazione di un’ azienda agricola non può essere paragonata a una manifattura. C’è una componente terriera e immobiliare che raggiunge valori molto alti.

E poi c’ è la cantina, che nel caso del Brunello si vende solo 5 anni dopo la vendemmia. Nella nostra ricetta di crescita attraverso la qualità credo davvero. Nel 2008 l’ azienda aveva 24 ettari di vigne, oggi ne ha quasi 40. Stiamo completando le nuove cantine e entro l’ anno finiremo il relais».

Quanti sono gli Illy delle nuove generazioni?

«I nostri figli sono in nove. In azienda lavorano mia figlia Daria e Ernesto, il figlio di Francesco. Indirettamente anche Vittoria, la sua primogenita, impegnata nella loro società di distribuzione svizzera. Della quinta generazione per ora sono in tre, i miei due nipotini e quella di mia sorella Anna».

È difficile andare d’ accordo, soprattutto quando i processi di crescita sono così laboriosi?

«Sì, è un impegno. Abbiamo un accordo di famiglia molto preciso, che tutti devono sottoscrivere appena maggiorenni, se intendono impegnarsi in azienda. Dice che studi fare per poter assumere incarichi manageriali e che tutti devono essere messi in concorrenza con gli altri collaboratori, senza nessun privilegio».

Quotarvi in Borsa non renderebbe tutti più liberi?

«Può essere utile sotto diversi aspetti. Accelera la crescita, porta visibilità, aumenta la disciplina. Anche se in termini di governance siamo già molto avanti, con tutti i business affidati a amministratori delegati esterni».

Perché non la fate allora?

«Ne parliamo da molto tempo, va fatta nelle condizioni, nel momento e con il meccanismo giusti. Direttamente o, magari, attraverso l’ingresso in un primo momento di un partner finanziario».

Avete già colloqui in corso?

«Posso dire che abbiamo individuato il percorso giusto. L’ ipotesi è che le partecipazioni diverse da Illycaffè confluiscano sotto una subholding. All’ interno della quale potrebbe entrare un partner che ci aiuti a accelerare la crescita, in modo da poter collocare in Borsa, ad esempio, Dammann e Domori. È un progetto su cui il consenso è elevato, anche se non completo».

Perché pensate che possa esserci lo spazio?

«In questi anni è come se avessimo caricato la molla, ora siamo pronti. È importante, ad esempio, aver raggiunto il momento in cui tutte le controllate sono in utile. Come contiamo accada quest’ anno. Dammann è previsto che raggiunga la soglia dei 40 milioni di ricavi, Domori i 20 milioni, Agrimontana circa 22».

Il 2019 è l’ anno giusto?

«È il mio obiettivo, speriamo di riuscirci. Un motivo è che andrà a scadenza il “quantitative easing” e partirà la successione a Mario Draghi in Bce. Il momento per farlo è adesso, poi la finestra di abbondante liquidità che ha accompagnato i mercati potrebbe iniziare a chiudersi».