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REPORTAGE – Bangladesh, schiavi nel paradiso del tè

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Vivono in villaggi isolati senza elettricità e acqua corrente. Dure le condizioni di vita e di lavoro dei raccoglitori di tè del Bangladesh. L’unica speranza per un futuro migliore è l’istruzione.

César Henriquez è un fratello marista che ha deciso di vivere in Bangladesh. Può sembrare un’ironia del destino quella che ha portato un appassionato del caffè a passare il proprio tempo a bere tè: in questo paese, infatti, non esiste una visita da amici, un colloquio d’affari o altro tipo d’incontro senza una tazza della bevanda nazionale. César è originario di El Salvador, dove i bambini crescono bevendo caffè e gli adulti sono orgogliosi di essere i migliori produttori di caffè della qualità arabica.

Il desiderio di andare in Bangladesh César l’ha espresso mentre frequentava il seminario di preparazione. Il direttore del corso gli aveva chiesto cosa avesse combinato per finire in un paese del genere. Nel Bangladesh nessuno va volontariamente. Ogni giorni milioni di persone combattono una battaglia contro povertà, sovrappopolazione e inondazioni sempre più devastanti. Ma César affronta i problemi con la leggerezza tipica degli abitanti del Centro America; arriva a definire “sorprendente” il quotidiano caos dei 15 milioni di abitanti di Dhaka.

Un corso di bengalese

César sta imparando il bengalese, una lingua fondamentale. Nel 1948 il Pakistan volle imporre l’Urdu alla regione del Bengala orientale ma la decisione fece scoppiare proteste che sfociarono poi nel 1971 nell’indipendenza del Bangladesh. Oggi il bengalese favorisce l’unità nazionale ed è la chiave per partecipare alla vita sociale. Chi non la padroneggia resta escluso.

Di questo si rendono conto soprattutto gli abitanti delle regioni di montagna al confine con il Myanmar o nel Sylhet, il territorio di piantagioni di tè nel nordest del paese. È proprio qui che, entro il 2015, César vuole aprire una scuola superiore e un convitto. I cristiani in Bangladesh sono solo lo 0,3% della popolazione. La Chiesa è povera e deve pianificare bene l’utilizzo delle sue risorse; è però consapevole che le scuole elementari aperte nei villaggi dei raccoglitori di tè non bastano affatto.

Fulchora è una comunità di 600 anime che si trova in mezzo alle piantagioni. Le persone vivono in capanne di fango dove quando fuori c’è il sole il caldo diventa insopportabile. La pioggia penetra attraverso i tetti di latta arrugginita. Per lavarsi gli abitanti usano un rigagnolo che chiamano “ruscello dei fiori”.

Il primo successo ottenuto da César riguarda la conoscenza del bengalese. In fondo anche i raccoglitori di tè conoscono solo i rudimenti di questa lingua. Tra loro parlano in garo, in urwan o in tripura. Vivono in Bangladesh da generazioni ma sono rimasti emarginati e intoccabili; proprio come accade in India.

I loro antenati furono assunti dai britannici quando, a metà ‘800, cominciò lo sfruttamento commerciale delle piantagioni di tè nel Sylhet. Allora Mumbai si chiamava Bombay e l’odierno Bangladesh apparteneva alla provincia di Assam. Ma nei villaggi sembra essere rimasto tutto invariato.

Cinquantacinque centesimi

“Il salario è troppo basso e non basta per la sopravvivere”, dice Ruchina Dufo, 43 anni. Con la paga che riceve come raccoglitrice di tè, deve mantenere una madre malata e quattro figli. Non possiede altro che un paio di pentole di latta, una lampada a petrolio e qualche coperta che di notte stende sul pavimento per dormirci sopra. Una piccola buona notizia è arrivata mesi fa.

La Duncan Brothers, un colosso del commercio del tè che con i suoi 30 milioni di chilogrammi vale un terzo del raccolto del Bangladesh, ha aumentato il salario dall’equivalente di 48 a 55 centesimi di dollaro al giorno. I lavoratori possono vivono nelle capanne e ricevono ogni settimana tre chili di riso. In cambio durante la stagione della raccolta, tra marzo e dicembre, devono raccogliere 20 chili di tè il giorno.

Shamin, un dirigente della Duncan, riceve gli ospiti in una veranda con vista su colline verde intenso. Mentre un domestico serve il tè, fa le lodi della sua impresa: 1,2 milioni di chili di raccolto annuale, esportazioni in Inghilterra, Russia, Afghanistan e Pakistan. Il Sylhet offre condizioni ideali per le piantagioni di tè, che hanno bisogno di un clima umido e caldo e di molta pioggia.

Un lavoraccio in un giardino all’inglese

Per avere accesso alla piantagione della Duncan è servita una lettera di raccomandazione di Dominic Sarcar, parroco di Srimangal, uno dei villaggi della comunità di Fulchora. Gli accessi alla piantagione sono controllati e su un cartello al varco d’ingresso c’è scritto: “Vietato fotografare”.

Quando si alza la sbarra si entra in una sorta di giardino all’inglese. I cespugli ricchi di foglie di tè si estendono a vista d’occhio. Solo alcuni alberi dal fusto alto e slanciato danno un po’ d’ombra. Sono le 11 di mattina e il sole splende in un cielo privo di nuvole.

Ruchina e la sua amica Surma stanno tagliando le piante da tè. Il coltello per lavorare devono portarlo da casa e per acquistarlo hanno pagato 155 taka, una somma equivalente al salario di tre giorni. Il lavoro costringe a stare molte ore piegate in avanti. A volte il riposo notturno non basta.

“Se andassi a cercare un altro lavoro mi ritroverei senza un tetto sulla testa” dice Ruchina. Sa bene che senza un’istruzione si resta poveri. Le sue due figlie più piccole frequentano la scuola elementare costruita a Fulchora dalla parrocchia.

Davanti all’ingresso sono state lasciate in un’allegra confusione di colori decine di pantofoline. In Bangladesh quando si entra in casa altrui ci si toglie le scarpe in segno di rispetto. Molti bambini sono comunque arrivati già scalzi, perché all’esterno sono rimasti meno sandali di quanti sono gli allievi riuniti nell’unica aula scolastica.

César si ferma a parlare con gli insegnanti e si sorprende del fatto che nessuno di loro ha una qualifica adatta al lavoro che svolge. Felisitha Pathang ha frequentato la scuola solo per dieci classi e suo figlio, che insegna ai più piccoli, non ha ancora conseguito la maturità. Quando i maristi avvieranno la propria scuola, fonderanno anche un centro di formazione per insegnanti.

Ai bambini s’insegna innanzitutto la lingua e in questo modo la maggior parte di loro riesce a continuare gli studi. Ma i maristi vogliono fare un ulteriore passo avanti. Il loro convitto sarà frequentato soprattutto dai bambini provenienti dai paesi delle piantagioni di tè, Nella scuola, però, saranno ammessi anche i figli delle famiglie più ricche. La convivenza dovrebbe favorire la reciproca comprensione e aiutare l’integrazione sociale dei figli dei piantatori di tè.

Beatrix Gramlich

fonte: misma
per leggere l’originale: http://www.misna.org/reportage/bangladesh-schiavi-nel-paradiso-del-te-10-12-2013-813.html

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