MILANO – Mentre all’estero alcuni micro roasters stanno optando per introdurre nell’etichetta dei loro caffè, il punteggio di riferimento per lo specialty, in Italia questa abitudine non ha preso piede, anzi: sembra un po’ strano prendere questo genere di iniziativa proprio nel momento in cui è stato lanciato il nuovo modello di valutazione del Coffee Value Assessment, secondo cui il classico sistema punti non funziona come prima. In questo caso la parola d’ordine è Q Graders: il confronto è tra tre professionisti certificati,
Francesca Bieker, Deborah Righeschi e Gianni Tratzi, che hanno risposto ad alcune domande in merito.
Bieker, il consumatore si orienterebbe meglio nel distinguere un caffè di alta qualità da uno più commerciale, se leggesse sull’etichetta del pacchetto un punteggio dagli 80 in su?
“Il punteggio non nasce con l’idea di far identificare al consumatore un caffè di qualità maggiore rispetto a un altro, ma è stato impropriamente utilizzato con questo fine.
Perché il consumatore quindi percepisca come caffè “qualitativamente superiore” uno punteggiato, per prima cosa è necessario che sappia dell’esistenza del punteggio e cosa indica.
In linea generale sicuramente possiamo dire che un caffè punteggiato potrebbe essere per il consumatore maggiormente appetibile e facilmente distinguibile rispetto ad uno commerciale, ma il solo numero, per come è strutturato ora, non necessariamente dà anche una percezione di maggior qualità del caffè al consumatore.”
Dal punto di vista sensoriale, tra un caffè valutato da un Q Grader 90 e uno da 85, il consumatore saprebbe apprezzare le sfumature gustative? Ha senso quindi indicare questa differenza avvertita dai più esperti, ad un palato meno allenato, o è invece più una strategia di marketing?
“È stato visto che la maggior parte dei caffè punteggiati risultano rientrare nel range 80-88 e pochi caffè risultano essere punteggiati sopra i 90. Ad oggi la qualità quindi che si trova tra questo primo grande gruppo e il secondo, per un palato già avvezzo allo specialty coffee, molto probabilmente la differenza si nota. Tuttavia non necessariamente il percepito del consumatore è concorde con il gusto dell’assaggiatore.”
Con il nuovo CVA di SCA, secondo lei che cosa si dovrebbe sottolineare nel pacchetto per raccontare lo specialty al consumatore finale?
“Il nuovo CVA, contrariamente al solo punteggio, ha l’obiettivo di fornire una descrizione oggettiva del caffè. Dal mio punto di vista, questo sistema diventa estremamente più interessante proprio per il consumatore, che potrebbe infatti trovare in etichetta una descrizione standard del prodotto e quindi avrebbe la possibilità di scegliere il caffè per le sue caratteristiche oggettive.
Inoltre in questo modo, le stesse caratteristiche estrinseche del prodotto hanno la possibilità di essere comunicate più facilmente al consumatore.
Le informazioni potrebbero essere molteplici: dall’origine, il produttore, la tipologia di caffè e la sua lavorazione a eventuali certificazioni.
Questi dati probabilmente già oggi possiamo trovarle nell’etichetta di un caffè specialty. La vera novità è proprio nella valutazione sensoriale perché se inserita – fatta ovviamente da assaggiatori certificati e che sanno utilizzare il nuovo protocollo – potranno aiutare il consumatore a distinguere per sapore e intensità un caffè da un altro e scegliere non in base a descrittori sempre diversi, ma in base a degli standard definiti.”
Bieker secondo lei, il valore di un caffè, la qualità percepita, è quantificabile oggettivamente?
“Il valore del caffè in senso ampio è dato dai suoi stessi attributi, che possono tuttavia non avere sempre lo stesso valore a seconda del mercato di riferimento.
L’idea stessa del CVA è quella quindi di identificare gli attributi, sensoriali e non, e riuscire a descrivere ogni caffè negli stessi termini, identificando anche quelli che sono difetti oggettivi.
A quel punto, in base alla percezione soggettiva, il consumatore, potrà scegliere con più consapevolezza.
Faccio un esempio, sono alla ricerca di una tazzina poco acida, se in etichetta trovo un caffè descritto con un’intensità dell’acidità alta, non avrà molto valore per me perché distante da ciò che cerco.”
Gianni Tratzi si inserisce nella discussione
Secondo lei, il sistema del punteggio ha mai aiutato i farmer a ottenere un prezzo migliore, o era tutto legato alla soggettività del Q Grader, che a sua volta spesso si riferiva ad un cliente torrefattore che aveva specifiche esigenze?
“Penso che dire che un Q grader determini il prezzo per uno specifico torrefattore, ovvero attraverso suoi report fuori dal contesto degli ICP (in country partners) determina il prezzo di lotti che non conosce, per gradimento di un torrefattore, sia un po’ come mescolare le pere con le mele”.
Più specifico è dire che i Q grader lavorano a supporto delle torrefazioni guidandole nel non prendere fregature da importatori e esportatori, e magari aiutare a trattare i prezzi dove richiesto, ma deformarli in quanto Q grader mi sembra poco verosimile.”
Il consumatore si orienterebbe meglio nel distinguere un caffè di alta qualità da uno più commerciale, se leggesse sull’etichetta del pacchetto un punteggio dagli 80 in su?
“I punteggi sono già da anni un volano di credibilità per le torrefazioni, anche se (fortunatamente sempre meno spesso) il punteggio dopo la tostatura è più basso di quello nominale: quando tosti male e non sviluppi al massimo il potenziale del caffè, succede questo. Resta il fatto che anche Nestlé oramai si accredita nel pubblico citando il Coffee Quality Institute per alcune capsule, Come per qualsiasi contenuto di potenziale valore, può diventare e diventa marketing.”
Con il nuovo CVA di SCA, che cosa si dovrebbe sottolineare nel pacchetto per raccontare lo specialty al consumatore finale?
“Si dovrebbe portare la narrazione su un altro livello: conoscere per davvero le caratteristiche estrinseche del prodotto può essere veramente prezioso per un pubblico sempre più attento agli acquisti che esegue, ed essendo la filiera del caffè sempre molto astratta nella narrazione dei baristi, il CVA può e deve arricchire l’esperienza del cliente rendendo onore alla filiera agricola ancora troppo nascosta da torrefattori poco sicuri di sé, e che pensano che la parte agricola non può coesistere con il proprio brand.”
Chiude il punto di vista di Deborah Righeschi
Con l’introduzione del CVA per valutare lo specialty, cambia qualcosa nell’analisi per i Q Grader? Considerando per altro che sono certificati dal CQI e non da SCA e che quindi si appoggiano ancora a griglie differenti di analisi.
“Certamente occorre fare chiarezza in merito e, per farlo, bisogna fare necessariamente un passo indietro e capire il funzionamento di valutazione ufficiale del caffè specialty.
Il sistema ufficiale con il quale un caffè viene certificato specialty oppure no è sempre passato tramite il Coffee Quality Institute (CQI).
La procedura del CQI prevede che un campione di un caffè con determinati requisiti che si desidera certificare come caffè specialty venga inviato direttamente al CQI, il quale, a sua volta, invia il medesimo campione a tre Q-Graders certificati per effettuare la valutazione.
I tre Q-Graders designati devono garantire l’oggettività della valutazione e, pertanto, non devono essere i proprietari del lotto, né avere interessi di compravendita sullo stesso.
A questo punto possono effettuare la loro valutazione e per farlo si devono avvalere dell’utilizzo dello SCA cupping form, vale a dire il protocollo di assaggio che abbiamo sempre conosciuto.
Una volta che il caffè ottiene un punteggio ufficiale superiore agli 80 punti il caffè diventa un “Q-coffee” ed è certificato esclusivamente il lotto analizzato e per l’anno del raccolto (l’anno successivo perde la qualifica in quanto non è più caffè di fresco raccolto).
Il nuovo Coffee Value Assessment (CVA), che verrà lanciato nella sua versione beta da SCA in Aprile, non è stato ancora adottato nella procedura di certificazione appena descritta. Ciò significa che i Q-Graders selezionati da CQI per la valutazione del caffè continueranno ad utilizzare il precedente cupping form.
Ad oggi il CQI non ha modificato questa parte, né si è ancora ufficialmente pronunciato in merito.
Tuttavia, la confusione che l’introduzione del CVA ha generato è più che lecita e derivante da una situazione fumosa che ha visto il proliferare di punteggi del caffè nel sistema di compravendita lungo la catena di fornitura che, in realtà, non sono attribuiti nella maggior parte dei casi seguendo la procedura ufficiale.
È diventata prassi comune considerare un caffè come specialty se lo stesso ottiene più degli 80 punti in assaggio, a prescindere dal fatto che si sia seguito il protocollo ufficiale.
Ciò che in genere nel settore accade è che, (nel migliore dei casi), un Q-grader assaggi il caffè utilizzando lo SCA cupping form e assegni un punteggio. Questo punteggio non è un punteggio SCA ufficiale perché non segue le procedure spiegate sopra e, soprattutto, presta il fianco a un evidente potenziale conflitto d’interessi e difficoltà di oggettività nella valutazione.
La stessa è diventata, però, una pratica molto comune tra i vari operatori del settore in quanto mezzo molto rapido ed efficace di comunicazione del valore e, quindi, della qualità.
Quindi, ecco che allo SCA cupping score si è visto affiancare quello che in realtà è un internal cupping score; il quale poi, in realtà, altro non è che il punteggio che vediamo sul packaging del prodotto nel 99% dei casi.
Il vero nodo centrale sarà capire dove sarà applicato il nuovo CVA (a quale livello della catena di fornitura) e se, soprattutto, le aziende concretamente lo implementeranno nei propri processi di valutazione qualitativa.”
E il valore di un caffè, la qualità percepita, è quantificabile oggettivamente?
“Per capirlo dovremmo fare un passo indietro e chiederci, quali sono oggi gli attributi che definiscono la qualità di un caffè? Sono gli stessi per tutti gli attori in gioco del sistema?
La risposta non è così semplice e scontata e, soprattutto, evolve nel tempo.
Ciò che era percepito come qualità 10 anni fa oggi assume connotati diversi.
C’è una sempre maggiore attenzione non solo alla qualità gustativa della bevanda ma anche ad altre caratteristiche estrinseche che la definiscono. Ne sono un chiaro esempio tutti quei caffè che parlano di famiglie produttrici, di territorio, di processi di lavorazione, di certificazioni, etc.
La qualità organolettica, inoltre, fa sempre riferimento a un parametro del tutto soggettivo che rientra nella sfera delle preferenze personali.
Difficile, quindi, riuscire a racchiudere in un numero, quindi con un parametro quantitativo, il valore di una preferenza soggettiva che sia riconosciuta come universalmente valida per tutti.”