MILANO – A parlarci in maniera approfondita del processo Honey, il professionista Adriano Cafiso, di cui facciamo una breve introduzione per anticipare il tema da lui discusso. Coffee hunter, lancia nel 2007 la sua idea di valorizzazione del caffè in Perù. Lavora 10 anni presso alcune importanti torrefazioni Italiane con lo scopo di acquistare caffè direttamente dalle origini. Si trasferisce a Dubai dove inizia un lavoro di selezione e distribuzione di caffè provenienti da coltivazioni sostenibili in Africa, Asia e Sud America. E’ lui che racconta questo particolare metodo di lavorazione del chicco.
Processo Honey: scendiamo nei dettagli
Anni fa mi dedicai a uno studio di fattibilità presso le comunità indigene amazzoniche Yanesha (nella Selva Centrale peruviana). L’acqua di lavaggio veniva direttamente riversata nei fiumi, con conseguenze devastanti per l’ambiente e la popolazione. Il nostro primo obiettivo era quindi quello di costruire dei tank di conservazione di questa acqua per poi riutilizzarla di nuovo nella piantagione: dopo un periodo di decantazione risultava infatti essere un ottimo nutriente per le piante.
Nei caffè lavati l’acqua impiegata per la produzione è davvero altamente contaminante. Per fortuna oggi è vietato il riversamento diretto nei fiumi, anche se in certe zone dell’Africa, del Sudamerica e dell’Asia il problema non è ancora risolto e dovrebbe essere al punto numero uno di un’agenda politica di protezione ambientale legata al caffè. Le tecnologie moderne ci permettono di ridurre drasticamente la quantità d’acqua necessaria: una volta si consumavano fino a dieci litri di acqua per la pulizia di un chilo di caffè, oggi si riesce a farlo con nuovi impianti con quantità ridotte di acqua.
Considerata la problematica che ho appena esposto, ho sempre guardato con grande attenzione ai processi Special natural e Honey Process
In questi processi l’utilizzo dell’acqua è quasi azzerato, risolvendo così alla radice il problema della dispersione in ambiente. Ad ogni modo una considerazione va fatta: quando si parla di fermentazione anaerobiche, carboniche, ore di fermentazione, utilizzo di frutta durante la fermentazione (per esempio lime, maracuya, arance) è difficile tracciare scenari validi in ogni situazione. Innanzitutto, perché non esiste un processo ideale ma dipende dal singolo microclima e dal numero di sperimentazioni che è in grado di realizzare il coltivatore.
Infatti, non è difficile incontrare due farm vicine dove lo stesso processo riesce in maniera completamente diversa. La domanda ancora più importante da porsi riguarda la probabilità di ripetibilità di uno stesso processo. Se il coltivatore non ha conoscenze microbiologiche, in considerazione anche delle variabili climatiche, può per un anno ottenere un grande caffè e fallire l’anno successivo. Inoltre, corre il rischio di perdere parti di produzione (che vanno in sovrafermentazione o che sviluppano sostanze biochimiche fastidiose in tazza).
La fermentazione controllata, che presuppone una conoscenza approfondita della chimica del caffè, è la vera frontiera del futuro
Ma questa non può essere affrontata senza un’adeguata formazione in piantagione del coltivatore. Sempre tenendo bene a mente che è estremamente difficile arrivare a paradigmi generalizzabili. Particolare attenzione va fatta poi dal tostatore che sceglie di inserire nella miscela per espresso un caffè di questo tipo: dovrà infatti sempre domandarsi se l’anno dopo avrà ancora disponibilità di quella origine così particolare, a meno di non accettare il rischio di forte incostanza.
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