MILANO – Quando, nel 1470, i portoghesi scoprirono le isole di São Tomé e Príncipe, s’imbatterono in rigogliose foreste disabitate, sostenute dalla ricchezza del terreno vulcanico. Per soddisfare logiche coloniali, il piccolo arcipelago fu popolato di schiavi deportati dall’Angola e da Capo Verde, perché potessero lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero prima, e poi, dalla fine dell’800, di cacao e di caffè Arabica importati dal Brasile.
Il cacao trovò nella terra saotomense il suo habitat ideale, trasformando in breve tempo la piccola isola nel maggior esportatore mondiale di fave di cacao, sfruttando le condizioni disumane che le popolazioni deportate erano costrette a subire.
La sorte del caffè Arabica invece non fu così felice, forse per assenza di terreni abbastanza vasti a un’altitudine superiore a 800-900 metri, ideale per la crescita della pianta.
Un’altra specie di caffè, la Coffea canephora, meglio conosciuta come robusta, ebbe miglior sorte, perché più resistente e soprattutto più adattabile alla morfologia dell’isola che ancora oggi ne è ricoperta, dal livello del mare ai 1100 metri di São Nicolau.
Non si conosce con esattezza l’origine del caffè coltivato oggi, ma quasi certamente si tratta di varietà introdotte dall’Angola e dall’Uganda, proprio dagli schiavi di quei paesi.
A São Tomé lo schiavismo è ancora un argomento sentito nel profondo: abolito nel 1875, ma solo sulla carta, è stato sostituito da un sistema di lavoro forzato che è durato, a tutti gli effetti, fino alla caduta della dittatura portoghese, nel 1974.
Nella memoria collettiva degli isolani, perciò, caffè e cacao sono inevitabilmente legati a centinaia di anni di sofferenza.
Oggi, però, questo prodotto potrebbe trasformarsi in strumento di riscatto per la popolazione, soprattutto per le comunità più povere.
Il robusta di São Tomé, infatti, se lavorato con cura, può ambire a raggiungere una qualità molto alta: è molto ricco di caffeina e il suo sapore non è aggressivo né legnoso, ma equilibrato, fragrante e morbido, con una nota amara delicata.
Il presidio Slow food
Il Presidio è nato dalla collaborazione fra Fondazione Slow Food per la Biodiversità, Ifad (International Fund for Agricultural Development), Papac (Projeto de Apoio Pequena Agricultura Comercial) progetto nazionale per lo sviluppo agricolo e Cecafeb, la cooperativa dei produttori di caffè.
Durante due missioni tecniche, la Fondazione Slow Food ha identificato e conosciuto un primo gruppo di produttori. Si tratta diuna prima comunità di 12 famiglie di São Nicolau, nel distretto di Mé-Zochi. Poi ha lavorato per valorizzare gli sforzi dei contadini della zona più povera dell’isola, a Sud-Est, dove si trovano otto comunità di produttori. Sono quelle di São Lourenço, Caridade, Santa Cecilia, Amparo Primeiro, São Paulo, São Francisco, Colonia Açoriana e São Manuel.
Qui, la sfida è formare le famiglie a diventare dei veri produttori di caffè in grado di soddisfare, in futuro, le esigenze del mercato internazionale. Per arrivare a questo, hanno costruito un nuovo centro per il beneficio umido del caffè a Caridade, e altri due sono in progetto.
Oltre all’appoggio tecnico, il Presidio intende valorizzare e promuovere sul mercato un caffè rimasto per troppo tempo nascosto nell’anonimato.
Area di produzione
Nel Centro-Nord dell’isola, la comunità di São Nicolau, distretto di Mé-Zochi.
Nella zona Sud-Est, le comunità di São Lourenço, Caridade, Santa Cecilia, Amparo Primeiro, São Paulo, São Francisco, Colonia Açoriana e São Manuel, distretto di Cantagalo.
Presidio sostenuto da
Ifad, International Fund for Agricultural Development
Papac, Projeto de Apoio Pequena Agricultura Comercial
Partner tecnico
Enrico Meschini
Il Presidio coinvolge 150 produttori. I 50 (raggruppati in 12 famiglie) di São Nicolau fanno già parte della cooperativa Cecafeb. E i 100 che si trovano nella zona sud ne faranno presto parte.