MILANO – La questione che ruota attorno alla plastica monouso, le bioplastiche, la plastica biodegradabile e la scelta di soluzioni più sostenibili, ha messo in crisi il settore della distribuzione automatica in Italia, che ha dovuto confrontarsi con delle misure detta dall’Unione Europea che non tengono conto di tempistiche troppo brevi e industrie da convertire a costi elevati e altre problematiche esistenti. Un’analisi di questo processo difficile di adattamento, arriva dall’approfondimento di Domenico Affinito e Milena Gabanelli che noi condividiamo da corriere.it.
La plastica non è il diavolo
Da quando è stata introdotta, a fine ‘800, ci ha semplificato la vita, e in alcuni casi pure salvata, basti pensare alle sue applicazioni sanitarie: dagli stent alle valvole cardiache, dalle siringhe alle sacche per il sangue, alle protesi. Il diavolo siamo noi. Ogni anno finiscono nel mare, in tutto il mondo, 8 milioni di tonnellate di rifiuti plastici: boe, reti, sacchetti, bottiglie. Gli oceanografi stimano che il 70% si depositi sui fondali, mentre il 30% rimane in superficie dove le correnti formano grandi isole. La più famosa si trova nell’Oceano Pacifico, segnalata già all’inizio degli anni ’70, grande quanto la penisola iberica. Ce n’è un’altra al largo delle coste del Cile e Peru, più recentemente si è scoperta quella fra l’America del Sud e l’Africa meridionale, nell’Oceano Indiano, nel Mare Artico, e una si sta formando tra l’Elba e la Corsica.
Nel tempo la plastica si deteriora, ma negli oceani non sparisce mai: nulla è più straordinario dell’ambiente marino per la sua conservazione
I frammenti uccidono tartarughe, delfini, balene, pesci, perché li ingoiano. Infine diventano particelle così piccole da mescolarsi al plancton, entrano nella catena alimentare, e la plastica ci ritorna nel piatto. Quei piatti i bicchieri abbandonati sulle spiagge di tutto il mondo sono il 3,1% del totale dei rifiuti, il 17,3% gli imballaggi alimentari, il 17,1% cannucce, il 9,2% posate.
La nuova legge europea
Matura in questo clima di allarme ambientale la direttiva europea 904 del 2019: visto che non sappiamo gestire l’usa e getta in modo civile, per prevenire e ridurre l’impatto della plastica nei mari e sulle spiagge europee, bisogna vietare il materiale con cui questi oggetti vengono fatti. A partire dal 3 luglio di quest’anno posate, piatti, cannucce, bastoncini cotonati, agitatori per bevande, aste per i palloncini e contenitori per alimenti non potranno più essere realizzati in plastica, anche quelle biodegradabili.
Le tappe della normativa sono state serrate
A dicembre 2015 la Commissione europea adotta un piano d’azione per l’economia circolare, in cui individua la plastica come priorità chiave. Nel 2017 fissa l’obiettivo della riciclabilità di tutti gli imballaggi entro il 2030. Nel gennaio 2018 lancia la strategia per ridurre l’inquinamento da plastica monouso, discussa con tutti gli Stati membri, che l’anno dopo porta alla direttiva in vigore oggi, votata dai rappresentanti di tutti gli Stati membri. Ma perché l’Europa dice «no» anche alle bioplastiche e alle plastiche biodegradabili?
Cosa sono le bioplastiche
Punto primo: cosa si può definire bio plastica? Cnr e Iupac da anni sono molto chiari: si possono definire tali le plastiche ottenute con materiali biodegradabili e compostabili. E a rendere un elemento biodegradabile non è tanto la materia prima di cui è costituito (che può anche essere di origine fossile) quanto la sua struttura chimica, poiché l’impatto ambientale di un determinato materiale è strettamente legato al tempo che impiega per biodegradarsi.
Ci sono quindi due tipi di bioplastiche: 1) quelle che derivano da una miscela formata da acido lattico, amido (di mais, frumento, patate, tapioca, riso) e gli scarti della lavorazione del petrolio. 2) Quelle che derivano da microrganismi alimentati con zuccheri o lipidi. Gli oggetti monouso più comuni prodotti con questo tipo di materiale sono i sacchetti per la spesa, per l’umido, teli agricoli, sacchetti ultraleggeri, bicchieri, film per imballaggi, per alimenti, posate. L’Italia produce il 66% di tutta la plastica biodegradabile d’Europa.
La plastica «verde» non è bio
La confusione nasce anche dall’Associazione Europea per le bio plastiche che parte da un altro presupposto: «si definisce bio plastica ciò che è biodegradabile, ma anche ciò che deriva da fonte rinnovabile». E così sono entrati nel calderone anche il polietilene e il Pet, che derivano in tutto o in parte dal bioetanolo, prodotto per fermentazione di alcune specie vegetali. Certamente il ciclo di produzione genera meno gas a effetto serra e presenta un’impronta di carbonio più bassa rispetto alla plastica tradizionale che deriva dal petrolio, ma sono plastiche che quasi sempre non si degradano per nulla. Hanno una applicazione infinita: dalle bottiglie per l’acqua minerale ai contenitori per alimenti, posate.
Rappresentano il 24% della produzione non tradizionale, ma definirle «bio» è ingannevole, scrive il Cnr nella sua relazione al Senato, perché induce il consumatore a pensare che si degradino e quindi ad essere meno attento. Scrive sempre il Cnr: «Alcune multinazionali hanno già visto il green business. La Plant Bottle della Coca-Cola presentata in pompa magna all’Expo di Milano 2015 come prima bottiglia in Pet 100% da materia prima rinnovabile, è una bottiglia che non si biodegrada, uguale a quelle che troviamo sparpagliate in natura, con l’unica differenza di provenire dagli scarti della lavorazione della canna da zucchero anziché dal petrolio». Attualmente non esiste infatti nessuna norma a livello europeo che precisi l’etichettatura ambientale di una bio plastica, salvo l’eccezione di quella «biodegradabile e compostabile».
Cosa è la biodegradazione
È un processo naturale che può richiedere centinaia di anni, dipende dal tipo di materiale e dall’ambiente. Per la compostabilità delle plastiche bio esiste una normativa europea: è la Uni EN 13432 che prevede la biodegradazione in 90 giorni. Ma questo succede solo negli impianti di compostaggio dove ci sono determinate concentrazioni di batteri e temperature elevate. In ambiente domestico invece, dove le temperature sono variabili, queste plastiche devono potersi degradare al 90% entro 12 mesi. Se finiscono in ambiente marino la storia si complica: per quando possano essere biodegradabili, cambiano le condizioni di temperatura, presenza di ossigeno, carica batterica, e non è possibile determinarne la durata. Certo, se i cittadini differenziassero la plastica in maniera corretta il problema non si porrebbe, ma siccome così non è, il Parlamento europeo e il Consiglio hanno deciso di aggredire il problema a monte, vietandone l’uso per alcuni prodotti.
Un duro colpo all’Italia
Gli Stati avevano due anni per organizzarsi, ma l’Italia, che da sola ha il 60% del mercato europeo dell’usa e getta, ha temporeggiato e il 7 giugno, quando sono state pubblicate le linee guida, è saltata sulla sedia. Da anni investiamo nella plastica biodegradabile e compostabile, siamo l’unico paese europeo a farlo: abbiamo innescato un processo virtuoso e ora rischiamo di perdere posti di lavoro. Le aziende coinvolte sono 280 aziende, 2.780 addetti, e un fatturato annuo di 815 milioni di euro, insomma siamo i leader europei del settore. Non a caso siamo stati i primi in Europa nel 2012 a introdurre gli shopper compostabili, biodegradabili in 6 mesi. Sapevamo quindi da due anni che l’orientamento era quello di escluderle, ma politica e imprese invece di fare fronte comune nelle trattative, coinvolgendo anche altri Stati, ognuna è andata avanti a difendere la propria di plastica: chi la fa col petrolio, chi con il bioetanolo, chi la biodegradabile, sperando in una proroga o una deroga. Che non c’è stata.
Con cosa proteggi la carta?
La direttiva ammette solo prodotti fatti con i polimeri non modificati: cioè quelli naturali, come la cellulosa. Ma se in un contenitore di carta ci metto della roba calda, con cosa lo faccio lo strato protettivo? Andranno bene le laccature, che di naturale non hanno niente, mentre i materiali supertestati fatti con gli amidi non sono stati considerati nelle linee guida. Sta di fatto che ora, in corsa, l’Italia ha chiesto, per piatti e bicchieri, di poter accoppiare alla carta un sottile strato di plastica. Non abbiamo specificato quale tipo di plastica perché tanto la direttiva non fa distinzione fra quella che si degrada e quella eterna. Stavolta l’appoggio lo abbiamo cercato e lo abbiamo ottenuto solo da Grecia e Polonia. La Commissione, che sembra orientata a concederci questo accoppiamento, si esprimerà a giorni.
Le prossime tappe
La sostituzione dei materiali, però, da sola non risolve il problema. Occorre cambiare i comportamenti di cittadini e aziende. Ci sono materiali problematici fatti di carta e plastica e non riciclabili, altri di alcuni colori per ragioni di marketing, per esempio le vaschette nere non sono lette dalle macchine di smistamento e vengono mandate all’inceneritore anche se sono recuperabili. E soprattutto ridurre il numero di usa e getta, in vista delle prossime tappe.
Dal 2024 i produttori dovranno farsi carico del costo delle attività di raccolta e di pulizia per quanto riguarda alcuni prodotti: tazze da caffè, contenitori per cibo da asporto pronto al consumo, filtri di sigarette (l’acetato di cellulosa di degrada molto lentamente), palloncini, reti da pesca, salviette umidificate. Oggi pagano solo il 35% dei costi di smaltimento e riciclo, il resto è a carico del cittadino.
Entro il 2026 dovremo sostituire tappi e coperchi in plastica per le confezioni di bevande; entro il 2025 riciclare almeno il 77% delle bottiglie di plastica e il 90% al 2029. Va detto che per quel che riguarda gli imballaggi di plastica l’Italia ricicla il 47%, contro il 30% della media europea. La percentuale non è uniforme ovviamente, abbiamo comuni non pervenuti, e altri che arrivano già al 90%, e dove la Tsu è stata abbassata. Proprio perché tutta la filiera è costruita attorno a prodotti realizzati con una materia prima compostabile e che, alla fine, ritorna in natura come fertilizzante o si trasforma in energia negli impianti più moderni di biogas.