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PADOVA – Le piante siamo noi: e all’orto botanico c’è anche il caffè

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Nelle pagine culturali del Sole 24 Ore è apparso questo interessante articolo sull’orto botanico di Padova che ospita anche piante di coffea arabica. Ve lo proponiamo.

di Sara Deganello*

L’agave arriva dal Messico nel 1561, il lillà dai Balcani nel 1565, il girasole dal Nordamerica nel 1568, il rabarbaro dalla Bulgaria nel 1608, il geranio notturno dal Sudafrica nel 1662, lo stesso anno della robinia. Sono tutte piante introdotte in Italia grazie all’Orto botanico di Padova. La stessa patata, citata per la prima volta dal vicentino Antonio Pigafetta in Il primo viaggio intorno al globo (1525) – la relazione sulla circumnavigazione terrestre intrapresa al seguito di Magellano nel 1519 – viene coltivata già alla fine del Cinquecento nell’Orto patavino.

Creato nel 1545 come Horto medicinale su richiesta di Francesco Bonafede per insegnare la «materia medica» attraverso l’uso di varietà vegetali dalle proprietà terapeutiche, è stato nel tempo crocevia internazionale di sementi, piante e conoscenze, nonché punto di partenza per la diffusione nel nostro Paese di specie che ormai esotiche non sono più. Fuori dalle mura circolari, di fronte alle serre ottocentesche, oltre a quelle già citate, se ne possono vedere molte: giacinto, sesamo, vite americana. «La difficoltà spesso è stata quella di trovare una corrispondenza tra la polinomia usata prima di Linneo e i nomi attuali», spiega Cristina Villani, responsabile delle collezioni. L’Orto di Padova è la memoria vivente di una buona parte della storia delle piante nel nostro Paese. Il Ginkgo biloba risale al 1750: a prima che Linneo, riportando un errore di stampa nel Mantissa plantarum del 1767, ne cambiasse il nome trasformandolo da “ginkyo” – “albicocca” (kyo) “d’argento” (gin), dall’aspetto dei semi – a “ginkgo”. Strana sorte per la pianta che Darwin definì «fossile vivente», un residuo dell’evoluzione rimasto fermo al Giurassico: oggi non esiste più allo stato naturale, viene solo coltivato. La Magnolia grandiflora messa a dimora qui nel 1786 è considerata tra i primi esemplari giunti in Italia, mentre il cedro dell’Himalaya, il primo nel nostro Paese, è del 1828.

La grandiosa palma di San Pietro piantata nel 1585 e che ispirò a Goethe il Saggio sulla metamorfosi delle piante (1790), stretta nella sua serra, è diventata la più antica dell’Orto dopo la morte di un vecchio agnocasto nel 1984: «Era precedente all’Orto. Abbiamo il cadavere in un armadio, speriamo di poterlo esporre presto», sorride Barbara Baldan, viceprefetto dell’Orto. In fondo, la storia delle piante è anche la nostra.

Il Giardino della biodiversità, la serra avveniristica inaugurata qui lo scorso settembre – un intervento da 23 milioni di euro – non è che l’ultima applicazione di questa constatazione. All’interno della grande struttura in vetro, alberi, arbusti e rampicanti sono organizzati in ecosistemi dalle caratteristiche ambientali simili: tropicale, tropicale subumido, temperato e mediterraneo, arido. Come in un viaggio accelerato dall’Equatore ai Poli.

Alle pareti, un percorso multimediale curato da Telmo Pievani, filosofo della scienza dell’Università di Padova, indaga l’addomesticazione reciproca messa in campo nei secoli con il regno vegetale. La storia geopolitica di grano e mais, l’anima vegetale della Coca-Cola, il viaggio del tabacco. Tra le 7mila specie dell’Orto, basta solo guardarsi intorno per imbattersi in altre trame. Come nel vialetto delle piante molto velenose, dove è coltivata la cicuta maggiore accanto al mughetto, allo stramonio, al maggiociondolo.

Le piante ci parlano veramente se le sappiamo ascoltare. L’Aspidistra elatior compare nel catalogo dell’Orto nel 1845: è stata introdotta in Italia attraverso Padova ed è una delle più diffuse piante da appartamento (ricordate Fiorirà l’aspidistra di Orwell?). La Stevia rebaudiana si utilizza molto oggi come dolcificante naturale.

La spettacolare Aristolochia gigantea è anche chiamata pipa dell’olandese, per la forma dei fiori. La Welwitschia mirabilis risale al Giurassico, vive nel deserto del Kalahari ed è così chiamata dal nome del botanico austriaco (Friedrich Welwitsch) che per primo la descrisse in una lettera al direttore dei Kew Gardens di Londra nel 1856; fa parte delle succulente, quelle piante che chiamiamo “grasse”.

La Coffea arabica, da cui ricaviamo il caffè, è di origine etiopica: si diffonde prima in Medioriente e poi in Europa per arrivare in Brasile, oggi primo produttore mondiale, solo nel 1727. In Italia ne parla per la prima volta nel De plantis Aegypti, nel 1592, Prospero Alpini. Nato a Marostica (Vicenza), già medico personale del console veneziano al Cairo, parla di un certo Bon e ne fornisce anche un’illustrazione: sono i suoi semi, tostati, che danno origine alla bevanda chiamata Caoua, il caffè. Albini fu prefetto dell’Orto botanico dal 1603 al 1616.

Alla fine è sempre a Padova che si torna. Linneo gli dedicò il genere Alpinia della famiglia delle Zingiberacee. Ma il medico vicentino non è il solo prefetto antico ad aver dato il proprio nome a una pianta: a Giacomo Antonio Cortuso è ispirata la primula Cortusa matthioli e a Giulio Pontedera la famiglia delle Pontederiaceae.

L’Orto botanico è un concentrato di scienza e di studio. Ma anche di divulgazione e di preservazione delle specie a rischio. «Presto installeremo anche un laboratorio per la conservazione dei semi (che vengono raccolti quotidianamente dagli otto giardinieri fissi, ndr) e uno di biologia molecolare, dove fare dna barcoding per l’identificazione delle piante», racconta Baldan.

Che sia fatta con mezzi centenari o moderni, è sempre ricerca: condotta grazie ai 500mila esemplari di piante, funghi, alghe, licheni, galle, semi, legni e frutti raccolti a partire dal XVIII secolo che compongono l’erbario. O grazie alla nuova teca di vetro progettata da Giorgio Strappazzon, a basso impatto ambientale, ricoperta da cuscini di Etilene TetrafluoroEtilene – un materiale coibentante di derivazione aerospaziale – e alimentata grazie alla pioggia, al sole e a un pozzo artesiano che prende acqua calda dalla stessa falda che abbevera le vasche delle piante acquatiche dell’Orto antico.

La conoscenza passa attraverso gli incunaboli della biblioteca ottocentesca e l’app creata per esplorare aiuole e vialetti. In piena epoca di scienza e coscienza (ecologica), siamo lontani dai significati geografici, astrologici, esoterici dell’Hortus cinctus cinquecentesco, del quadrato inscritto in un cerchio diviso in quarti (anticamente spalti sopraelevati rispetto ai viali esterni) circondato da un muro costruito nel 1552 per proteggere le preziose piante medicinali dai continui furti. Tuttavia, in quel terreno a forma trapezoidale tra la basilica di Santa Giustina e quella del Santo, la forza misteriosa delle piante rimane intatta.

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