mercoledì 22 Gennaio 2025

La pianta del caffè, dalle bacche alla tazzina, una storia ancora tutta da scoprire, scrive Il Post

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MILANO – Il Post  è uno dei più importanti siti di approfondimento giornalistico in Italia. Forse il migliore e il meglio documentato. Non a caso comparare nella classifica dei siti di notizie più letti in assoluto, grazie a queste invidiabili, quanto sempre più rare nell’epoca del web, qualità. Per tali premesse, riportiamo volentieri  l’articolo che segue e che tratta temi in larga parte già conosciuti per i lettori. Ma è sempre necessario anche affrontare gli stessi argomenti proposti dal punto di vista di altri, sia giornalisti che i non addetti ai lavori. E’ un po’ una provocazione che è in circolo online e riguarda il protagonista assoluta della filiera del chicco: la pianta del caffè.

Secondo i dati dell’International Coffee Organization

Nel 2016 in Italia abbiamo consumato 5,8 chili di caffè a testa, con una media di 3,1 tazzine al giorno. Circa l’87 per cento di chi lo beve lo fa a casa; il 73 per cento lo prende anche in uno dei 150 mila bar presenti in Italia.

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Anche senza questi dati conosciamo bene la centralità della cultura del caffè in Italia, ma pochi saprebbero far risalire i chicchi abbrustoliti e profumati alla pianta da cui sono stati raccolti. Che è quella con le bacche verdi o di un rosso brillante.

La ragione si deve in parte al fatto che l’Italia non coltiva caffè

In effetti lo importa quasi interamente dai principali produttori. Come Brasile, Vietnam, India; Uganda, Indonesia e Colombia. L’Italia è infatti il secondo importatore al mondo di caffè verde, cioè crudo. Il quale viene poi tostato in una delle 700 torrefazioni del paese, venduto sul mercato interno o esportato.

La lavorazione del caffè inizia da paesi lontani, richiede tempo e tecniche accurate. Per cui giustifica l’euro che lasciate sul bancone del bar andandovene, chiedendovi perché quei due rapidi sorsi costino così cari.

Bacche di caffè e chicchi tostati nella torrefazione Hacienda San Alberto, a Buenavista, in Colombia
(Sergi Reboredo/picture-alliance/dpa/AP Images)

Sui rami della pianta del caffè spuntano in pochi giorni foglie, fiori e piccole bacche tondeggianti

Essi richiedono invece molto tempo per maturare, passando da un colore verde, al giallo, al rosso brillante: si parla di sei-otto mesi per la qualità Arabica e tra i nove e gli undici per quella Robusta.

A quel punto possono essere raccolte: per le varietà meno pregiate avviene meccanicamente o con il metodo detto stripping; passando cioè una mano sul ramo e trascinando via bacche, foglie e fiori; per quelle più pregiate si usa invece il picking, con il raccoglitore che sceglie ogni singola bacca.

Il frutto del caffè si chiama drupa e ha al suo interno due chicchi avvolti da una polpa dolce e biancastra e poi da due pellicole. Una più dura detta pergamino e una più sottile, detta membrana argentea.

Una volta raccolte, le drupe vengono fatte seccare

Quelle delle qualità più comuni vengono lasciate al sole e rimestate finché sono completamente essiccate; vengono quindi frantumate per estrarne i semi.. Le drupe pregiate vengono messe in enormi vasi d’acqua dove i chicchi vengono liberati dal guscio e lasciati a fermentare tra le 12 e le 48 ore.

Quindi lavati, essiccati al sole e ulteriormente selezionati. Per smistarli si usa il crivello, una lastra con fori dalle dimensioni standardizzate che ne classificano la qualità. Il caffè così ottenuto è detto verde e viene solitamente esportato nei paesi in cui verrà tostato, come appunto l’Italia.

Arrivati in torrefazione

I chicchi sono inseriti inseriti nella tostatrice per 10-20 minuti a 200-250 gradi, a seconda del risultato che si vuole ottenere. Qui, grazie al calore e a reazioni come quella di Maillard (quella famosa per la carne), i chicchi perdono il 15-20 per cento del loro peso. Aumentano di volume e diventano scuri per la carbonizzazione della cellulosa e la caramellizzazione degli zuccheri. In breve, da insapori acquistano tutte le sfumature di gusto che conosciamo.

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