PERUGIA – Certo che è dura da digerire. Anzi, insopportabile. L’idea che la Perugina non esista più pare anche incredibile oltre che impossibile. Intendiamoci; che vuol dire non esistere più?
Probabilmente non scomparire del tutto, ma ridursi a una “fabbrichetta” di due-trecento dipendenti, forse meno, dal carattere più spiccatamente commerciale che produttivo e con linee di produzione ridotte al “Bacio”, se continuerà a tirare e poche altre tipologie di cioccolato.
E’ questo il futuro, prossimo, della ex grande fabbrica, la seconda dell’Umbria dopo la Terni e che, ai tempi d’oro contava, per la maggior parte “fissi”, 3.500 dipendenti ed era la risorsa principale della città? Probabilmente sì. In molti, dirigenti sindacali e politici, semplici dipendenti, l’avevano capito e pronosticato.
Ora, l’annuncio dei 340 esuberi sostanzialmente dichiarati dalla Nestlé, conferisce a questa prospettiva, purtroppo, il crisma della attendibilità, anzi, potremmo dire, della ufficialità. Dei 65 miliardi di volumi produttivi della multinazionale svizzera nel mondo, il cioccolato, la notizia è recente, rappresenterebbe appena il quattro per certo.
Di conseguenza alla Nestlé del business del cacao e della Perugina importa poco, quel poco che serve a non “perdere” e realizzare un qualche utile.
Una fabbrica di molte centinaia di persone è superflua. La crisi economica e il calo dei consumi hanno ridotto quelli voluttuari, come può essere considerato quello del cioccolato, la concorrenza è agguerrita: la Nestlé può addurre molte ragioni alla politica di ridimensionamento che sta attuando a San Sisto.
Ma non si può sfuggire alla constatazione che questa politica più che da esigenze esterne sia dettata da una volontà interna al gruppo e alle logiche che lo ispirano, come testimoniano d’altro canto la cessione di marchi come la “Rossana” e le “Ore Liete”, che, specie il primo, sono pietre miliari nella storia della Perugina e non risulta fossero in crisi di mercato o in perdita.
La loro vendita ha costituito un piccolo trauma psicologico per i consumatori che le consideravano inseparabili dalla fabbrica che le produceva e segnalava, con tutta evidenza, un allarme sui destini di quest’ultima.
La prospettiva di una Perugina marginalizzata e ridimensionata era emersa, per chi l’ha saputo e voluto leggere, dal testo dell’ultimo accordo sindacale. Era implicita, anzi esplicita in esso.
Quando un’impresa destina più dei due terzi di un investimento alla pubblicità invece che alla struttura, vuol dire che non ha alcun interesse reale a uno sviluppo produttivo e tanto meno, conseguentemente, ad una ripresa occupazionale. Il sindacato non doveva firmare quell’accordo?
Qui c’è sottotraccia una polemica e qualche recriminazione. Si, probabilmente quell’accordo non andava firmato.
Ce la prendiamo con la Rsu e i sindacati? Ecco qui, probabilmente, bisogna fermarsi e riflettere perché in realtà quell’accordo fotografa semplicemente la realtà (per quanto cruda e dura essa sia) dei rapporti di forza che esistono oggi in Perugina e negli altri stabilimenti del gruppo in Italia, per non parlare del resto del mondo.
Forse, se errore c’è stato, è stato quello di non aver sottolineato i limiti. Quelli imposti e oggettivi, che l’intesa doveva scontare. Invece di magnificarne (così è apparso) i contenuti.
Adesso il problema è che fare.
Questione complessa e difficile. L’unica cosa certa è che non ci si può rassegnare a perdere la Perugina. Le reazioni all’annuncio dei 340 esuberi ci sono state, ma non all’altezza della drammatica emergenza che si apre.
Perugia, l’Umbria e, se permettete, anche l’Italia devono difendere un patrimonio produttivo del quale non si può fare a meno. E che non potrà essere compensato dall’ennesimo centro commerciale. Come? Forse bisogna prendere atto che con la Nestlé il destino della Perugina è segnato. E cercare un altro interlocutore.
Leonardo Caponi