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Perché Starbucks non ha ancora aperto in Italia? Una riflessione di Stephan Faris

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MILANO – “Perché Howard Schultz non ha ancora portato il suo colosso del caffè nel paese che lo ha ispirato?” È la domanda da un milione, anzi, da un miliardo di dollari, che si pone Stephan Faris, in una recente inchiesta scritta per Bloomberg Businessweek.

Com’è noto, fu infatti un viaggio in Italia, compiuto nel lontano 1983, a dare al re Mida americano delle caffetterie l’idea sulla quale ha costruito il suo impero globale. Una vera rivelazione, che Faris evoca con le stesse parole di Schultz, tratte dal libro Pour Your Heart Into It: How Starbucks Built a Company One Cup at a Time (Metteteci dentro il cuore: come Starbucks ha costruito una compagnia tazza dopo tazza).

Così Schultz descrive Piazza del Duomo nelle sue pagine: “L’ampia piazza pullulava di locali. L’aria era riempita dalle melodie dell’opera e dal profumo delle caldarroste. Riecheggiavano i discorsi scherzosi sul dibattito politico e il chiacchiericcio dei bambini nelle loro divise scolastiche. Pensionati e casalinghe con i figli discorrevano del più e del meno con i baristi dietro al banco”. Fu a quel punto – osserva Faris ironicamente – che Schultz, senza dubbio pesantemente in preda alla caffeina, fu colto da ispirazione.

Per gli italiani, il caffè (inteso come il locale) era parte integrante della comunità e del vivere sociale. O meglio: il caffè non doveva essere soltanto una bevanda, ma anche un’esperienza da vivere. L’opportunità era enorme e Starbucks, limitandosi a fare il torrefattore, rischiava di lasciarsela sfuggire. “Fu quasi un’epifania – racconta enfaticamente Schultz nel suo libro – così fisica e immediata che mi cominciai a tremare per l’emozione”. A distanza di quasi trent’anni, Starbucks conta oltre 17 mila locali in decine di paesi di tutto il mondo, ma non è ancora presente in Italia e tantomeno all’ombra delle guglie meneghine, dove Schultz venne folgorato sulla via di Damasco.

“In un’epoca in cui Starbucks considera l’espansione globale come la chiave per il suo sviluppo futuro – ed è pressoché impossibile passeggiare per una grande metropoli europea senza imbattersi in una delle sue caffetterie – essa non ha alcun tipo di presenza nel paese che ne ha ispirato la fondazione” è la constatazione di Faris. Eppure l’Italia è da tempo nel mirino della multinazionale di Seattle. Sin dal 2002, quando la globalizzazione del brand della sirenetta era appena agli albori, Schultz dichiarò pubblicamente la sua intenzione di sbarcare nel nostro paese. Un interesse che riaffermò nel 2006, in un’intervista al popolare programma radiofonico Marketplace. Ma oggi, nel 2012, l’Italia rimane ancora per Starbucks una montagna tutta da scalare. Cosa fa sì che l’appuntamento con la penisola continui a essere rinviato sine die?

Innanzitutto – osserva Faris – il doversi misurare con il paese che incarna lo standard aureo, la summa della cultura dell’espresso, presenta un rischio reputazionale. Senza contare la saturazione e la frammentazione di un mercato complesso e articolato come quello di casa nostra. Ma cosa teme maggiormente Starbucks? Per cercare di capirlo, Faris ha deciso di tornare in Italia, nei luoghi dell’illuminazione schultziana, trent’anni più tardi. Scoprendo così che Orlando Chiari, contitolare del prestigioso Camparino di Galleria Vittorio Emanuele II – un “ex agente di borsa che ha i numeri di cellulare dei più grandi top manager italiani ed è sufficientemente in confidenza con loro per poterli chiamare nel bel mezzo di un intervista” – non ha mai sentito parlare di Starbucks e tantomeno ha varcato la soglia di uno dei suoi innumerevoli locali in giro per il mondo. E constatando che la cultura del caffè si è sviluppata in Italia attorno alla macchina espresso. Ergo: il caffè viene sorseggiato con la stessa rapidità con la quale viene preparato, per non perderne aroma e sapore, molto spesso in piedi (improponibile il bicchierone da passeggio).

La bevanda è concentrata e viene consumata perlopiù in purezza, anziché affogata nel latte o negli sciroppi. E come se non bastasse, i gusti e le tostature variano sensibilmente da zona a zona del paese. Può un marchio internazionale come Starbucks – si chiede a questo punto Faris – riconfezionare e vendere un prodotto come il caffè espresso al popolo stesso che lo ha inventato? Sorprendentemente, “c’è motivo di ritenere che la risposta possa essere un sì” afferma l’autore. “Per molti dei suoi frequentatori – spiega ancora Faris – Starbucks non è una caffetteria, bensì un luogo di ritrovo e d’incontro dove si può anche degustare un caffè”. E in Italia c’è sicuramente un mercato per un format che interpreti il concetto della “casa fuori di casa, dell’ufficio lontano dal capoufficio: un luogo in cui sedersi, chiacchierare o leggere un libro lasciando trascorrere il tempo”.

La prova? Il McDonald’s che si trova all’altro capo di Piazza del Duomo, che da 4 anni circa accoglie anche un McCafé. E il fatto stesso che i McCafé siano diventati il business di McDonald’s a maggior tasso di crescita in Italia (vedi in merito l’intervista all’Ad di McDonald’s Italia Roberto Masi, pubblicata venerdì scorso da Comunicaffè, ndr.). Ulteriore riprova: secondo un’indagine del 2010, citata nell’articolo, un nuovo cliente su cinque dei McCafé italiani non aveva mai frequentato prima i fast food di McDonald’s. Altrimenti detto: il cappuccino può avere più appeal di un Big Mac.

Attenzione però, avverte Faris: più Starbucks rimanda il suo appuntamento con l’Italia, più aumenterà la concorrenza dei suoi potenziali imitatori. Nell’articolo viene citata, ad esempio, Arnold Coffee, una piccola catena fondata 3 anni fa da Alfio Bardolla e Andrea Comelli, che si propone di ricreare in terra italiana l’esperienza del coffee shop all’americana strizzando l’occhio a un pubblico giovane, colto e cosmopolita (2 dei suoi 6 locali sono stati aperti rispettivamente alla Statale e alla Cattolica di Milano), che ha imparato ad apprezzare all’estero l’atmosfera cosy e rilassata delle caffetterie stile Seattle. Il caffè? Tipicamente all’americana, servito in bicchieroni di carta pieni sino all’orlo, anche se non manca l’espresso tradizionale, magari rivisitato e personalizzato.

Messaggio finale di Stephan Faris a Howard Schultz: “Quando sei pronto, l’Italia è già pronta!”. Sarà vero quanto afferma Faris? Ai posteri l’ardua sentenza. Per quanto ci riguarda – senza tornare su riflessioni e considerazioni già trattate già tante volte, anche in queste colonne (vedi, ad esempio, i saggi del Prof. Jonathan Morris) – ci permettiamo di rivendicare il primato della tradizione conviviale dei caffè italiani, alcuni dei quali sono entrati nella storia del nostro paese. Dal Pedrocchi di Padova al Gambrinus di Napoli, dal Giubbe Rosse di Firenze al San Marco di Trieste, rifugio preferito dello scrittore Claudio Magris, che lo ha reso celebre in tutto il mondo, ai cui tavoli generazioni di studenti universitari hanno preparato gli esami più impegnativi o scritto la loro tesi di laurea. E questo, molto tempo prima della comparsa dei laptop e del wi-fi.

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