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Perché a Starbucks lo sbarco potrebbe andare di traverso

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di Alberto Riva*

La prossima apertura del primo Starbucks in Italia è diventata fin da subito la notizia della settimana, nella ‘patria’ del caffè espresso.

Lunedì scorso, infatti, la più grande società del settore ha annunciato che aprirà il suo primo negozio a Milano nel 2017.

Per ore, su Twitter, la parola chiave “Starbucks Italy” è stata tra le tendenze più popolari. Ma come prevedibile, l’interesse provocato non è stato solo positivo.

Starbucks, così come altre società americane in procinto di ‘colonizzare’ il paese in cui aprono le loro filiali, tende a suscitare reazioni contrastanti. Così se sono tanti i clienti che affollano quotidianamente le catene nelle capitali europee, allo stesso modo in molte città del Vecchio Continente ci sono state – nel corso degli ultimi anni – numerose contestazioni di fronte a negozi come i ristoranti di McDonald’s, visti come simbolo della globalizzazione imperialista.

Tuttavia, anche gli italiani più moderati sembrano non vedere l’azienda con sede a Seattle di buon occhio.

Quando il Corriere della Sera ha pubblicato online un articolo sul prossimo arrivo di Starbucks, alcuni lettori non hanno nascosto il loro disappunto.

“Non mi piace Starbucks come marchio, a causa delle loro politiche di crescita, secondo me molto aggressive,” spiega a VICE News Federica Cherubini, una giornalista e ricercatrice 32enne che vive a Londra.

In diverse interviste rilasciate alla stampa italiana, il CEO dell’azienda Schultz ha dichiarato di non avere intenzione di colonizzare il mercato italiano, né di offrire gli stessi prodotti che già si trovano negli altri paesi.

L’azienda – ha chiarito – vorrebbe invece espandersi in Italia con “umiltà e rispetto,” conscia del fatto che si tratta del paese noto in tutto il mondo per il suo caffè, e che nel corso della storia è stato il primo approdo – nel sedicesimo secolo – della bevanda portata dai mercanti che lo avevano conosciuto in Africa e in Medio Oriente — posti in cui Starbucks, peraltro, è già arrivato.

È proprio a Milano, nel corso di un viaggio nel 1983, che Schultz avrebbe capito – a sua detta – che il caffè dovrebbe essere una specie di rito sociale. E dopo aver creato un impero globale del valore di 19 miliardi di dollari proprio grazie a quell’idea, adesso vorrebbe tornare nel posto dove tutto è iniziato.

Con cautela, però: Starbucks rilascerà la sua licenza a Percassi, una società italiana che lavora nell’ambito dei negozi al dettaglio e dell’e-commerce, e che è già stata partner di Victoria’s Secret e Zara per il loro lancio in Italia. Una decisione che contrasta con la strategia aziendale in Europa, Medio Oriente e Africa, dove l’82 per cento dei negozi è in realtà di proprietà del marchio.

In un’intervista al Corriere della Sera, Schultz ha confermato che potrebbero aprire altri negozi anche a Verona e a Venezia.

L’azienda non sa ancora se manterrà tutti i nomi simil-italiani dei prodotti quando aprirà qui, confermando in qualche modo di voler crescere ‘gradualmente’ — cosa che suggerisce il fatto che la compagnia si aspetti di avviare un esercizio in virtuale perdita, almeno per un po’ di tempo.

Ma l’Italia è davvero pronta per caffelatte giganti e frappuccini?

All’apparenza, l’arrivo in Italia potrebbe sembrare quasi un azzardo: secondo i dati forniti dalla Federazione Italiana Pubblici Esercizi (FIPE), l’unico negozio Starbucks che aprirà nel 2017 dovrà competere con ben 172.000 bar che servono caffè. E la competizione con così tanti piccoli locali, dove il barista diventa un amico con cui può chiacchierare del più e del meno, è una sfida complicata.

La portavoce di Starbucks, Linda Mills, ha dichiarato a VICE News via email che la società intende portare “la sua offerta unica ai consumatori italiani,” e diventare “un terzo luogo tra la casa e il lavoro, dove trovare il tempo di gustarsi un ottimo caffè,” aggiungendo l’intenzione di adattare “la sua offerta ai clienti italiani.”

In Italia, Starbucks potrebbe non diventare un concorrente diretto del caffè come lo conosciamo, ma un’offerta di nicchia indirizzata alle persone che vogliono qualcosa di diverso da un caffè espresso — come il cliente che ordina un americano, che si vede di rado nei bar tradizionali.

“È difficile trovare un buon americano in un bar italiano, generalmente è un normale caffè con l’aggiunta di acqua,” dice a VICE News Andrea Cova, 29 anni, fondatore e proprietario della compagnia di ristorazione Soul Kitchen. “Qui ancora più che altrove, caffè americano da portare via rimarrà il loro prodotto di riferimento.”

Starbucks potrebbe comunque accorgersi che il suo rivale principale è la mini-catena Arnold Coffee, che ha già aperto tre negozi a Milano e uno a Firenze: sul suo sito si definisce come “The American Coffee Experience,” promette di “trasportarti dall’altro lato dell’Atlantico.”

Basato sul modello Starbucks, Arnold Coffee ha un logo molto simile — una proposta che secondo Cova ha già avuto successo, considerando il numero di clienti che affolla ogni mattina il punto vendita di via Orefici. “Alle 7 del mattino, Arnold è più pieno dei bar tradizionali che gli stanno intorno.”

Tuttavia, proprio l’americanità potrebbe essere un grosso vantaggio anche per Starbucks.

“Il marchio è già famoso,” spiega Irene Pozzebon, 21 anni, che studia Scienza Naturali all’Università di Pavia. “I giovani vanno da Starbucks solo perché è Starbucks.” Ma a parte alcuni gruppi, il caffè all’americana potrebbe non esercitare un’attrazione di massa — trattandosi di un bicchiere di carta gigante pieno di liquido bollente, sorseggiato in più di mezz’ora, e al fatto che non si vede spesso in mano a un italiano, “a meno che questo non sia in viaggio all’estero, dove un salto da Starbucks è spesso quasi d’obbligo.”

Uno dei problemi principali in cui Starbucks potrebbe incorrere, tuttavia, è quello dei prezzi.

Stando a un’associazione di categoria, in Italia il prezzo medio di un caffè espresso è di 94 centesimi, mentre in media un cappuccino costa 1,27 euro. Starbucks non ha ancora reso noti i prezzi che applicherà in Italia, ma stando a un’analisi effettuata dal Wall Street Journal nel 2013, le sue bevande sono relativamente più costose nei paesi che usano l’euro.

“Ho provato Starbucks in Svezia. I prezzi, rispetto a quello di un caffè tradizionale, sono davvero troppo alti,” ha spiegato Pozzebon, aggiungendo che ritiene difficile per gli americani competere sui costi al dettaglio.

Ma per i giovani italiani che vivono nelle grandi città, potrebbe non essere un problema.

“Certo, il vero caffè italiano è una cosa diversa. Ma l’apertura di Starbucks potrebbe essere un fatto positivo,” spiega Mauro Crippa, 23 anni, studente di Economia e Finanza alla Statale di Milano. “Essendo così diverso dalla nostra tradizione, potrebbe aggiungere un tocco nuovo e interessante.

Valerio Bassan e Matteo Civillini hanno contribuito alla stesura di questo articolo.

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