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Parla Giuseppe Lavazza, vice presidente del gruppo torinese: «Abbiamo battuto la crisi con l’export»

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TORINO – L’Italia ha superato la crisi del ’29, due conflitti mondiali e il difficile dopoguerra. Periodi peggiori di oggi, dobbiamo farci coraggio: riusciremo a battere anche questa congiuntura negativa». Giuseppe Lavazza (nella fotografia a fianco), vice presidente insieme al cugino Marco dello storico gruppo di famiglia, quarta generazione di un’azienda simbolo del made in Italy, che ha portato il caffè in tutto il mondo, vede la tazzina mezza piena, come un espresso. Ma il caffè, come molti altri beni di consumo, avverte l’imprenditore «rischia di essere amaro, se il governo non riuscirà a evitare ulteriori aggravi fiscali e a ridurre sprechi e spese eccessive».

DI LUCA FORNOVO*

Cosa potrebbe succedere in Italia?  

«L’ulteriore aumento della pressione fiscale non potrebbe che determinare una crescita dell’effetto recessivo, come già avviene da diversi anni, poiché una parte rilevante della spesa pubblica italiana è improduttiva e brucia risorse ingenti senza generare ritorni apprezzabili e creare vera e stabile ricchezza. Ci si accontenta di un effetto di natura strettamente redistributiva e assistenziale, ma mettendo mano a una quota ormai superiore al 50% del Pil e con un intervento spesso a pioggia e privo della necessaria focalizzazione. È chiaro che il sistema non può più reggere e vanno apportate significative correzioni».

 

Dopo il «decreto del fare» come può il governo rilanciare la crescita?  

«I fronti sono tanti, e alcuni urgenti, hanno necessità di solida copertura finanziaria come abbassare le tasse che pesano sul costo del lavoro per esempio attraverso una drastica revisione di tanti inutili sgravi e incentivi fiscali a favore delle imprese. Altri sono economicamente neutrali ma contribuirebbero a fare dell’Italia un paese meno problematico per chi ci lavora come l’abbattimento radicale degli infiniti vincoli burocratici e dello strapotere della burocrazia amministrativa e la necessaria certezza nel campo del diritto a partire da quello tributario».

 

Con il calo dei volumi in Italia, molte aziende hanno puntato sull’export, cercando di aumentare le vendite all’estero. Che cosa dovrebbe fare chi ha difficoltà a entrare nei mercati esteri?  

«Le nostre imprese devono puntare su efficienza, talento, innovazione, creatività e buon marketing. Lavazza, per esempio, crede molto alla promozione del suo brand attraverso ogni tipo di veicolo pubblicitario purché economicamente efficiente e allineato con la sua strategia di internazionalizzazione: dalla gastronomia, alla cultura, alla fotografia, fino a musica, arte e sport. Infatti, per il terzo anno siamo il caffè ufficiale di Wimbledon e abbiamo già raggiunto un risultato straordinario: il nostro caffè si è rapidamente inserito nell’iconografia dell’evento e questo ci ha permesso di rafforzare la riconoscibilità del nostro marchio nel Regno Unito e a livello internazionale».

 

Non le sembra però un paradosso cercare di convertire al caffè il popolo di Sua Maestà, da secoli abituato al rito del tè?  

«Già da qualche anno assistiamo all’apertura delle frontiere del gusto e della cultura gastronomica: c’è sempre di più contaminazione di cibi, bevande, riti e tradizioni. Una contaminazione tra te e caffè c’è già stata. Gli inglesi hanno provato prima il caffè in tazza grande come facevano per il tè, consumando caffè solubile, un passaggio quasi naturale».

 

Ora quest’abitudine è cambiata?  

«Sì e Wimbledon lo dimostra: già l’anno scorso il nostro espresso e i nostri cappuccini si sono affermati con decisione nelle nostre caffetterie allestite durante le due settimane del torneo. Sono stati serviti circa un milione di caffè, abbiamo gestito 60 punti vendita e impiegando 600 baristi e 200 macchine da caffè. Proprio oggi inizierà il torneo e speriamo di fare ancora meglio, non solo con l’espresso ma anche col cappuccino».

 

Oltre alla Gran Bretagna, quali sono gli altri mercati strategici?  

«Oltre l’Italia, sono soprattutto Nord America, Germania, Francia e Australia. In particolare gli Stati Uniti sono un mercato importante. Nel 1991 abbiamo fondato la consociata Lavazza in Usa e dal 2010 siamo partner e azionisti di Green Mountain Coffee Roasters. Attualmente Lavazza detiene circa l’8% delle azioni della società, confermando così il valore strategico della partnership industriale».

 

A proposito di America, non teme la concorrenza di Starbucks? Per ora si dice che il colosso Usa abbia ancora qualche remora ma un giorno potrebbe entrare di prepotenza nel mercato italiano.  

«Nessuna paura. In Italia forse ci sono troppi bar perché avvenga l’ingresso di Starbucks e d’altra parte non credo che il nostro Paese sia un contesto a loro ideale. Considero invece Starbucks un apripista in tanti altri mercati perché diffonde in modo globale la cultura del caffè, aiutandoci a entrare o a rafforzarci in molti Paesi».

 

Il mercato italiano del caffè risente della crisi e quest’anno i volumi sono in calo?  

«Il mercato in generale è in contrazione ma si mantiene dinamico per il tasso di innovazione che lo contraddistingue e anche piuttosto vitale. In Italia esistono oltre 600 torrefattori locali. Potremmo forse assistere a qualche fenomeno di consolidamento e di aggregazione, ma il contesto sembra stabile».

 

Come ha affrontato Lavazza il calo del mercato in Italia?  

«Il nostro annus horribilis è stato il 2011, quando abbiamo subito in bilancio una perdita di 9 milioni. Abbiamo affrontato il problema di petto, rivisto la struttura interna, portato avanti azioni per contenere i costi, razionalizzato l’organizzazione, rifocalizzato gli investimenti e tagliato i rami secchi, insomma abbiamo avviato una vera e profonda spending review».

 

E nel 2012 avete recuperato?  

«Abbiamo realizzato un utile di 97,1 milioni di euro, in netta controtendenza rispetto al 2011, riallineandoci con i livelli pre-crisi. Il fatturato 2012 è salito a 1.330,7 milioni di euro (+ 4,9% rispetto al 2011). Risultati possibili anche grazie alla plusvalenza di 36 milioni di dollari realizzata con la cessione del l’1% di Green Mountain, azioni che poi ci siamo ricomprati, salendo all’8%. L’obiettivo 2013 è confermare questi risultati».

 

I rapporti all’interno della famiglia continuano a essere stabili o ci sono attriti?  

«Lavazza ha una storia secolare: è stata fondata nel 1895 e la famiglia è sempre stata molto unita, nonostante guerre, crisi e tante difficoltà. Ricordo che all’inizio degli anni’ 80 mio padre Emilio e mio cugino Alberto che ora è presidente del gruppo si trovarono a un bivio: trasformare Lavazza in una grande conglomerata alimentare dai biscotti alla cioccolata o continuare a puntare sull’attività principale. Scelsero la seconda via, più in salita e meno di moda allora, ma fu una scelta vincente. Ora siamo alla quarta generazione».

 

Lavazza si quoterà in Borsa?  

«No, un’azienda va in Borsa spesso quando ha bisogno di soldi e vuole finanziare così la sua crescita. Lavazza è già ben patrimonializzata e con una forte liquidità: nel 2012 il saldo di cassa è stato di 288,1 milioni».

*Fonte: La Stampa

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