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Paolo Scimone, 10 anni di His Majesty: “Il segreto è perdersi nel magico mondo del caffè”

Scimone: "Mi piace la nostra dimensione attuale: è un business che si ripaga da solo, è sano, senza debiti. Manteniamo ancora una cura maniacale in tutti i passaggi: se si diventa una piccola industria, si perde un po’ l’apporto umano. Non vogliamo abbandonarci all’automatismo"

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MILANO – Era il 2013 quando Paolo Scimone ha aperto la micro roastery di specialty nella sua Monza, con un nome che rispecchia la sua infinita passione per l’Inghilterra: His Majesty the Coffee. Ora siamo nel 2023 e il tempo è passato, ma la sua attività resta ancora – anzi, sempre più si consolida – come un punto di riferimento dello specialty italiano anche all’estero.

Scimone, dieci anni per una micro roastery di specialty potrebbero equivalere a 15 per una più classica: come c’è riuscito e cosa è successo?

“Dieci anni fa ho iniziato da solo e con il supporto prezioso dei miei genitori e mio fratello. Tostavo io, gestivo la parte amministrativa e quella di ricerca del prodotto: se sono arrivato a oggi vivo e vegeto però, è anche grazie all’ingresso dei miei collaboratori, che mi aiutano a svolgere le mansioni quotidiane che sono quelle più logoranti.

Il primo è arrivato nel 2017, a quattro anni dall’apertura, Simona, poi si è aggiunta Barbara, Alice e Domenico, infine Stefano. Sono stati loro a sostenermi nel portare avanti His Majesty.

L’altro aspetto importante che ci ha fatti arrivare al 2023 è legato alla comunicazione, che è gestita da un anno a questa parte da Coffeeandlucas: tutti insieme mi hanno sostenuto, in un modo o nell’altro, a festeggiare questi 10 anni.

Economicamente è andata bene, soprattutto con le aperture in Kuwait: sono state queste che ci hanno dato uno slancio utile per aumentare i volumi.

In tutto questo tempo non abbiamo mai avuto un agente commerciale e nonostante questo, abbiamo sempre registrato una crescita organica che deriva dal passaparola.

Mi piace la nostra dimensione attuale: è un business che si ripaga da solo, è sano, senza debiti.

Manteniamo ancora una cura maniacale in tutti i passaggi: se si diventa una piccola industria, si perde un po’ l’apporto umano. Non vogliamo abbandonarci all’automatismo, perché alla fine sebbene semplifichi il lavoro, si perderebbe il nostro valore aggiunto.”

In questi anni di attività ha visto un cambiamento da parte del consumatore finale verso gli specialty? O è ancora tanto difficile?

Paolo Scimone che osserva il chicco (foto concessa)

“In Italia sta andando meglio: le vendite online che rappresentano i privati crescono ogni anno del 20% circa. E questo vuol dire che l’utente finale è sempre più consapevole.

Ci sono anche nuovi clienti: mi piace tenere d’occhio personalmente ogni ordine, individuare chi l’ha fatto, chi acquista in maniera ricorrente, la zona da cui partito e cosa è stato comprato (se miscela o single origin).

Ho notato ad esempio che alla fine dell’anno le miscele sono quelle vendute maggiormente sul sito web. In Germania, in Svizzera, abbiamo dei clienti che sistematicamente acquistano tre chili ogni due settimane di blend.

Dall’altro lato, devo dire che abbiamo subito un rallentamento sull’estero con la pandemia: vendevamo molto fuori dall’Italia, ma poi tra la Brexit con l’ostacolo della dogana, e il Covid che ha fatto riscoprire i micro roaster più vicini, abbiamo perso tanti clienti.

Stiamo recuperando soltanto in parte adesso in Germania, Polonia, Repubblica Ceca, ma prima della pandemia la divisione tra estero e Italia stava al 50%-50%, mentre oggi la proporzione è 80% Italia e 20% estero.

Forse sono aumentati i consumatori di specialty in Italia, ma è sicuramente vero che all’estero si sono spalmati sulle aziende locali.

Lo shop online per noi resta ogni anno di più, il canale di vendita principale: ora rappresenta tra il 15% e il 20% del fatturato della roastery.”

Ma come mai anche lei Scimone, non ha deciso in tutti questi anni di aprire un proprio flagship?

“Mi sarebbe piaciuto aprire uno store e ho persino pensato alle tre location potenziali: Monza, Milano, o Londra. Milano perché secondo me in Italia è la città più internazionale come flusso e mentalità.

L’altro sogno è Monza che è casa mia e nella quale vorrei lasciare un’impronta con lo specialty coffee. Infine Londra, perché è la mia seconda casa e ci sono alcuni quartieri come Mayfair dove un marchio come His Majesty the Coffee sarebbe molto attraente per il target di quelle zone.

Devo trovare la persona giusta con cui portare avanti questo progetto. Con la mancanza di baristi formati e appassionati, è un po’ dura trovare il personale adatto a cui affidare il locale.”

E quando è partito quanti come lei hanno aperto una micro roastery di specialty e quanti invece hanno resistito sino ad oggi (o hanno seguito il suo esempio)?

“Abbiamo aperto insieme nel 2013 io, Rubens Gardelli e Francesco Sanapo. Pochi altri prima di noi avevano avviato una realtà del genere. Alcuni di quelli che oggi fanno anche specialty ai tempi trattavano soltanto caffè commerciale.

È stato un grande vantaggio esser stato tra i primi: eravamo noi soltanto agli eventi per un po’ di tempo. Poi siamo rimasti molto legati, abbiamo fatto anche un blend insieme, Trilogy, a tre mani con i nostri tre loghi sul pacchetto.

Nel tempo sono nati altri concorrenti e la cosa fa bene perché sere a diffondere la cultura dello specialty.

Dall’altra, odiando la poca creatività che per me è d’obbligo, sento un po’ fastidioso il copiarsi a vicenda tra i microroasters.

Questo significa da una parte che ho prodotto qualcosa di interessante al punto che gli altri lo guardano come modello da seguire, dall’altra trovo che proporre la stessa cosa all’interno di una nicchia non è molto stimolante per nessuno.”

Come festeggia questo traguardo di His Majesty the Coffee?

“Abbiamo deciso di creare una miscela dedicata a questo evento e da noi mai fatta prima: una per moka, da abbinare per chi volesse acquistarla, ad una Mokavit personalizzata con il nostro logo.

L’idea è dare questo blend con o senza la moka. Mi sono buttato su questa idea consapevole del fatto che chi usa il filtro di solito è in cerca di monorigini e funzionerebbe poco in Italia.

All’estero si usano molto i blend nei coffee shop con i batch brew come filtro del giorno, invece da noi c’è ancora molto l’idea della monorigine legata a questo metodo di estrazione.

Il mio è un back to the origin.

La miscela contiene un Etiopia naturale: che non può mancare mai in una miscela. Durante i viaggi in piantagione che ho fatto, ho visitato dei posti in cui si vedevano cose interessanti, ma quando si arriva in Etiopia si nota subito che c’è qualcosa di diverso: qui hanno pochi mezzi per il processing, eppure ottengono un prodotto unico e riconoscibilissimo nelle sue note floreali e fruttate.

Un risultato che altre origini difficilmente raggiungono, nonostante tutti gli sforzi e investimenti. Questa è la magia del caffè.

Diciamo che l’Etiopia è come Messi, talento naturale, Cristiano Ronaldo è il Brasile che deve allenarsi tantissimo per esser atleticamente preparato.

A grande richiesta quando si parla di moka, ho scelto una parte di Arabica Plantation indiana, lavata. Un caffè che usiamo anche in un altro nostro blend, che con questa caffetteria restituisce quel quid in più di frutta secca e di corpo, abbassando il tenore di acidità, che piace molto ai consumatori (anche se un po’ snobbato tra gli specialty coffee).

Il terzo componente potrebbe essere un caffè brasiliano, ma sarebbe scontato, lo sostituirei volentieri con un caffè peruviano. Ci servirà ancora qualche giorno per definire la miscela e lanciarla sul mercato.

Vorrei mantenere questo blend sul nostro listino al di là di questa occasione, per avere a disposizione un’opzione per la moka e avvicinarmi così ai consumatori più comuni, senza essere più troppo estremisti.

Questo approccio serviva a far capire che esiste qualcosa di diverso rispetto al caffè più commerciale, ma già all’estero hanno smussato queste spigolosità e si è tornati a tostare più scuro, a fare i blend per raggiungere volumi più interessanti e così avere degli specialty da tutti i giorni. In questo modo questo prodotto può diventare uno stile di vita sostenibile.”

E quindi nei prossimi 10 anni di Paolo Scimone, cosa ci vede?

Scherza Scimone: “Mi vedo in un bel cottage in Cornovaglia in pantofole e con un buon caffè tra le mani.

His Majesty può diventare “His Majesty the Cornovaglia”.

Ho avuto modo di crescere come professionista e ad un certo punto vorrò lasciare spazio ai giovani.

Mi piacerebbe che la parte più fresca nel mondo del caffè sia attiva e smuove le cose.

Quando io ho iniziato c’era – c’è in parte ancora – in Italia, un po’ la tendenza a non fare largo alle nuove generazioni. Invece c’è bisogno di svecchiare il settore e fare il cambio della guardia.

Ci sono persone che potrebbero essere i prossimi Paolo Scimone.

Il segreto fondamentale per seguire la mia strada è perdersi nel mondo del caffè, così com’è successo a me a Londra: pur avendo lasciato il Politecnico prima di aver conseguito la laurea in Ingegneria con pochi esami rimasti da dare, il metodo acquisito da questi studi mi ha aiutato a trasformare la passione per il caffè in un’impresa performante.

È stato fondamentale studiare per avere una conoscenza di base importante e far sì che in molti ambiti l’approccio scientifico vincesse su quello empirico più diffuso tra i torrefattori.

Questa è stata una delle chiavi vincenti di His Majesty.”

Scimone, in definitiva quindi è contento?

“Molto, anche oltre le aspettative. Probabilmente avrei potuto fare qualcosa in più sulle quantità di caffè prodotte ma mi sarei complicato la vita: più grossa è l’azienda più arrivano i problemi. Ho trovato la mia dimensione ideale, che mi permette di avere anche del tempo per me.”

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