MILANO – Un torrefattore del sud che però parla di specialty ed è connesso con l’atmosfera londinese, senza però mai perdere il suo legame con il territorio e i suoi modi di consumare la tazzina: Paolo Giovinazzo general manager Caffè Cannizzaro, ricerca la qualità, promuove la formazione e, soprattutto, spinge per una maggiore trasparenza da parte dei torrefattori per migliorare tutti insieme il risultato finale dell’espresso. Lo abbiamo intervistato, per restituire il suo punto di vista che è molto lucido e frutto di esperienza diretta.
Giovinazzo, Caffè Cannizzaro è una realtà di oltre 60 anni: una forte tradizione, che però si è aperta alle novità come gli specialty. Una scelta particolare per una torrefazione italiana che si rivolge al grande pubblico, ce la spiega?
“L’azienda è nata nel 1960. Il fondatore, Cannizzaro, era originario del nostro paesino e poi si è trasferito a Piacenza. A metà degli anni ‘80 mio padre ha rivelato l’azienda, bottega di paese che vendeva macinato, con l’impegno di lasciare al fondatore le chiavi dell’attività fino alla sua morte. Così è stato. Mio padre poi si è dedicato ad altro, sviluppando il core business degli ulivi e per questo non siamo cresciuti particolarmente per diversi anni. Sono io che ad un certo punto mi sono concentrato sull’evoluzione della torrefazione.
Ha nominato nella domanda, la tradizione, ma facciamo attenzione a questa parola: quando la si usa solitamente nel mondo del caffè la si confonde con il metodo artigianale che è sempre stato usato sino ad oggi e che però sta anche alla base di molti degli errori nella tostatura: tradizione quindi non significa sempre qualità.
Gli specialty ad esempio, non sono per noi una tradizione, ma sono qualitativamente elevati: da quando abbiamo iniziato a volerne capire un po’ di più e quindi passare da una tostatura fatta ad occhio, ad una supportata dalle nuove tecnologie, questo ci ha portato negli anni a farci conoscere prodotti diversi.
Il torrefattore italiano, per la maggior parte, non sa bene neppure di cosa si sta parlando quando se ne parla. Noi abbiamo voluto creare la Specialty Cafètiere di Londra, come un ibrido tra Caffè Cannizzaro e l’attività portata avanti da mio cugino Mauro Laruffa. Nel 2015 abbiamo iniziato con la formazione con BaristaAnd. Personalmente ho intrapreso il mio percorso quell’anno, facendo una cosa un po’ strana: quando hanno aperto la prima scuola del sud Italia in Puglia, mi sono iscritto subito da torrefattore per comprendere la mentalità dei baristi.
Ho fatto il percorso Sca Barista Skills che mi ha portato a guardare il mondo della Caffetteria con una visione completamente diversa. Sono stato anche in una piantagione in Brasile: un’esperienza che ancora una volta mi ha aperto un’altra pagina a me sconosciuta. Ero un figlio di torrefattore che aveva visto il caffè crudo, senza però mai porsi la domanda sulla sua provenienza. Oggi invece possiedo diverse specializzazioni Sca e siamo sempre alla ricerca di monorigini, sui quali svogliamo continui test e sessioni di cupping.
Tostiamo gli specialty in modo corretto: lo studio parte dall’umidità e densità dei chicchi di verde, attraverso moderne apparecchiature che ci permettono di controllare la materia prima che riceviamo dai nostri fornitori, continua durante il processo di tostatura con il controllo compiuterizzato delle curve e finisce con il refrattometro e l’assaggio per garantire costanza e gusto!
Abbiamo contatti per il verde, soprattutto sugli specialty, attraverso Londra che per noi è la madre di questi prodotti. Avendo tanti contatti con le roastery e i maestri tostatori che ci hanno supportato, abbiamo dei contatti diretti.”
A Cittanova, Reggio Calabria, portare caffè di qualità e specialty è una strada ancora più in salita? Come state agendo sull’educazione di consumatore finale e operatore dietro al banco?
Giovinazzo: “Parto da un principio sull’espresso italiano: noi in Italia beviamo il peggiore al mondo, probabilmente. E questo è vero in tutto lo Stivale, insieme alla difficoltà di discutere su un prezzo più alto e ancora di più di specialty. Noi riusciamo a fare breccia proponendo una trasparenza assoluta: con un cliente che ci comunica la sua necessità di offrire la cremosità in tazzina, per andare incontro al gusto della sua clientela, bisogna partire da una formazione onesta e non scenografica, come invece spesso accade tra le aziende che intendono questo momento didattico più come un’operazione di marketing per vendere dei caffè a prezzi blasonati che però non corrispondono necessariamente alla qualità.
Noi invece rispondiamo chiaramente con le istruzioni adatte a soddisfare le esigenze del target di riferimento di un determinato locale, al prezzo giusto e con la miscela che sia più equilibrata possibile. Allo stesso tempo però, insegnando loro, cerchiamo di condividere concetti più approfonditi come ad esempio che cosa sia l’Arabica, le origini, la giusta tostatura che ne esalti le caratteristiche aromatiche.
Li accompagniamo in questo percorso anche un po’ traumatico al palato, introducendo gradualmente il futuro della caffetteria. Si inizia a comunicare con i clienti, stimolandoli passo dopo passo. Da qui poi si raggiunge lo specialty: la risposta dei clienti che man mano si orientano verso soluzioni più ricercate, è quella di tornare da noi a chiedere di altri prodotti. Così si innalza poi anche il livello delle altre bevande come il cappuccino. Diamo una rotazione al nostro caffè in modo da mantenerlo fresco. Siamo arrivati con alcuni nostri clienti, ad abbinare un terzo grinder, dove ruota uno specialty ogni due settimane circa, innescando un circolo di conoscenza e di comprensione di ciò che si beve.”
Giovinazzo, secondo lei lo specialty è un mercato destinato a diventare meno di nicchia anche in Italia?
“Rimarrà sempre di nicchia secondo me, non vedo margini di crescita a doppia cifra. Questo è un fatto che mi dispiace: negli altri settori abbiano alzato l’asticella, come con i vini e le birre. Ci sono anche le pizze gourmet che costano 20 euro. Nel caffè non vedo però lo stesso processo: ho paura che un esercito di baristi formati possa rappresentare un danno per i colossi del mercato.
Mi spiego meglio: la maggior parte degli operatori non ha una formazione per gestire gli specialty, e non hanno neppure stimoli per acquisirla, perché è conveniente per l’azienda che li rifornisce che loro restino senza gli strumenti necessari e quindi restino ancora legati alle regole del marketing che fanno leva su un packaging che recita “Arabica e Robusta”, che significa tutto e niente e che di fatto non rispecchia la qualità che è contenuta nella busta. Per i grandi del mercato, dover alzare il livello del prodotto che propongono perché gli operatori conoscono bene la materia prima, è un rischio. Finché il barista resta ignorante, il torrefattore è protetto.
Ultimamente lo chiedo spesso alle persone: secondo te in Italia, potrà mai nascere un programma come masterchef per il caffè? Per me, mai. Il nostro consumatore finale dal 1960 in poi, è abituato a bere un tipo di espresso e cambiare il suo gusto è complesso. Ci vuole un metodo graduale. Io non ho paura ad offrire un 100% Robusta a chi mi chiede un caffè super cremoso in tazza, senza nascondere mai la verità. Chi ha voglia di crescere e migliorare, ha la possibilità di farlo con noi allo stesso modo.”
Come avete reagito al Covid e alla profonda crisi dell’horeca?
“Abbiamo reagito come azienda unita: abbiamo avuto tante difficoltà nella nostra storia passata, avendo vissuto in un territorio in cui non è così facile fare impresa. Nel marzo 2020, quando di colpo hanno chiuso completamente i locali, ho avuto una prima settimana di shock in cui mi sono dovuto chiedere come andare avanti. Abbiamo dovuto rifare l’azienda per colpa di un incendio che anni fa l’aveva rasa al suolo: tutto ciò che abbiamo guadagnato lo abbiamo re investito nella ricostruzione, senza poter però mettere da parte delle riserve. Ritrovandoci in piena pandemia, siamo riusciti a superare il primo periodo che è stato tosto, nel 2021 abbiamo assistito a una leggera ripresa, seppur con le dovute flessioni tra aperture, smartworking, e dad.
Ora sembra che da febbraio ci sia un miglioramento. Certo, abbiamo appena preso fiato dal Covid e siamo in guerra… Scherzavamo amaramente con Mauro: abbiamo aperto il primo shop a Londra durante il primo lockdown. Ora ne apriamo un secondo a marzo, in concomitanza della guerra…il terzo forse è meglio che non lo apriamo. – scherza Giovinazzo – Le vendite online hanno in parte aiutato, ma non tantissimo: forse questo più per un nostro limite che non abbiamo sviluppato mai sufficientemente questo canale. Da due anni ci stiamo lavorando su, ci dà una mano, ma dover competere con chi ha puntato tanto nell’online, è dura: bisogna fare degli investimenti importanti e mirati. È una cosa che mi stimola, che vorremo approfondire nel prossimo futuro. Una volta finiti determinati impegni economici, questo è un mondo in cui credere molto.”
E ora l’aumento di prezzi delle materie prime, dell’energia, la difficoltà logistiche: Giovinazzo, come state rispondendo e come comunicate questi dovuti rincari?
“Vorrei approfondire questo discorso dei rincari: in un’Italia dove tutti dicono “Arabica” ma i numeri dicono altro, ovvero che importiamo per lo più Robusta, voglio capire se l’incidenza dei prezzi è stato davvero così incisivo per tutti, in maniera indistinta. Lascio ai lettori l’interpretazione.
La flessione ha inciso sulla borsa di New York, sulla Robusta non è stata drammatica come sull’Arabica. Noi abbiamo lasciato tutto invariato: abbiamo aumentato di un euro e cinquanta al chilo dal dicembre 2021. Stiamo assorbendo dei costi di vari aumenti noi come azienda: è ovvio che con l’euro e cinquanta non abbiamo coperto tutto ciò che ha subito un rincaro. Un 100% Arabica che ha raddoppiato se non più il suo costo e quindi non è sufficiente. Non è la prima volta che viviamo un momento critico e si sono visti degli anni con una flessione al rialzo dei prezzi che poi si è ristabilizzata.
Lancio quindi una provocazione: se domani, dopo che tutti avranno alzato i prezzi del caffè, il mercato dell’Arabica tornasse ai livelli del 2019, chi tornerà indietro all’euro a tazzina? Certo questo è un picco drammatico, che ha visto tutto in contemporanea alzarsi: ma voglio pensare che alla fine mi auguro che prima o poi si assesti il mercato.
Il caffè lo abbiamo sempre venduto al prezzo che è giusto, dai 19 euro più iva, intorno ai 22 euro, in base alla miscela che offriamo. Il punto è che tutte le aziende che oggi vanno nei bar e applicano il comodato d’uso delle attrezzature, le tende, i tavoli, le sedie e magari anche dei soldi, e propongono un caffè a 13/ 15 euro al chilo, non trovano dei baristi che sanno replicare. Oggi che vogliamo mantenere la qualità alta, ci dobbiamo confrontare con queste realtà e fenomeni, il mio augurio e che i baristi futuri acquisiscano le giuste competenze per poter sperare di cambiare in meglio la qualità in tazza.
Caffè Cannizzaro può contare sui clienti affezionati, che ringraziamo tantissimo per la fiducia che rinnovano giornalmente. Senza di loro non saremmo nessuno. E lo stesso discorso vale per i dipendenti.
In Calabria ho spinto su determinati locali in cui si è fatta formazione e si è acquistata l’attrezzatura di proprietà e di livello come le macchine La Marzocco. I clienti sono contenti del lavoro fatto insieme e del nostro caffè.”
Capitolo Unesco: sarebbe un valore aggiunto per tutto il comparto, o un’arma a doppio taglio in termini di qualità?
“Torniamo all’oggettività: diciamo che il metodo espresso lo abbiamo invento noi per quanto riguarda l’estrazione. Se si vuole riconoscere questo con l’Unesco, allora ben venga. L’espresso italiano l’abbiamo esportato, ma spesso non corrisponde a un buon risultato in tazza. Se parliamo quindi di rito e di costumi, allora non si discute, ma non mettiamo in mezzo la qualità.”
Le capsule sono un mercato sempre in crescita: la vostra torrefazione come si pone di fronte a questo prodotto, che in ogni caso pone delle sfide in termini di sostenibilità?
“Produciamo le cialde per il monoporzionato, con una carta biodegradabile. L’alluminio e il film esterno che la chiude, purtroppo ancora per una questione di costi e conservazione, non siamo riusciti a sostituirli con una soluzione migliore. Mentre per quanto riguarda le capsule: è vero che essendo in alluminio e in plastica, si va a sfavore dell’ambiente, ma fino a quando saranno sul mercato in quanto rappresentano un’alternativa comoda per i consumatori, voglio sperare che esistano anche dei programmi che si occupino del loro riciclo. Confido che le grandi aziende pian piano possano iniziare a trovare una soluzione definitiva per risolvere il problema.
A livello qualitativo invece non discuto: parto dal principio che anche un ottimo caffè può esser estratto in capsula e in cialda. Alla base, la responsabilità è del torrefattore. Se uno introduce una materia prima di qualità nel contenitore, il modo di erogarlo non dovrebbe inficiare il risultato finale. Ho provato delle capsule in Inghilterra prodotte da aziende che erano compatibili con i diversi sistemi, riempite con gli specialty. Lo faremmo anche noi, ma sarebbe un flop: è un discorso che funziona all’estero. In Italia c’è una guerra tra poveri sulle capsule e calde: 3 cartoni di cialde da 150 pezzi a € 40 compensivi di IVA e spedizione gratuita… devo ancora capire dove sbagliamo noi.”
Ci parla del nuovo impianto di tostatura 4.0?
“E’ un impianto completamente automatico. Dai silos del verde, alla tostatrice ai silos di tostato, collegati da varie bilance per poter pesare in automatico le ricette che abbiamo impostato, così come le diverse curve di tostatura adatte a ciascun proposto. Marcello Geraci, mastro torrefattore siciliano che è stato per noi una scoperta, ci ha aiutato a creare queste soluzioni e sta a Londra.”
Quali sono le novità che dobbiamo aspettarci per il futuro prossimo di Cannizzaro?
“Le abbiamo provate tutte: magari torneremo a riproporre i London Coffee Tour che erano sempre sold out quando potevamo farli. Erano percorsi fatti veramente in modo serio. Portare dei ragazzi già formati da noi, a Londra, per 4 giorni, con tappe stabilite con Mauro Laruffa, ad esplorare la cultura di questi posti, era un’esperienza fantastica. A breve spero che potremmo riproporlo.
Ma avendo anche altri distributori in giro per l’Europa, dalla Polonia, alla Francia o l’Austria, questo format potremmo anche replicarlo in altre nazioni. Avevamo quasi organizzato prima del Covid e poi…la storia la conosciamo. Anche in Polonia, con il nostro distributore che è un ragazzo fantastico con cui abbiamo costruito una relazione importante, abbiamo già individuato dei coffeeshop da visitare eventualmente. Si potrebbe pensare anche con i Paesi d’origine, ma è un po’ più complicato. La prima speranza è che finisca questo periodo drammatico, noi siamo dei vulcani. Di strada da fare ce n’è tanta.
Leggo ancora da parte di molti addetti ai lavori, dei concetti un po’ obsoleti, legati a degli stereotipi: oggi ci vuole la tecnologia, esser precisi, costanti, con tempi più ridotti nella tostatura. Iniziamo a dire le cose come stanno realmente a livello tecnico e a muoverci verso un miglioramento della bevanda. Il cliente non ha più bisogno di farsi affascinare dal racconto, ma deve toccare con mano la qualità. Parlare ancora di segreti della miscela, mi pare assurdo: noi, come tante torrefazioni, forniamo una carta d’identità sul pacco che riporta le origini, le percentuali di arabica e robusta, i metodi di lavorazione, le analisi sensoriali e altre informazioni. A me piace dire cosa si trova nel nostro blend, parlare di percentuali, di monorigini, anche se si tratta del Vietnam, perché dovremmo nasconderlo?
Come si fa a parlare di specialty in un settore che ancora parla di miscele misteriose? Io non ho segreti: chiunque può avere la sua scheda tecnica. Ragioniamo e parliamo ai baristi, diamo loro gli strumenti per poter esser i primi critici e così esser costretti a fare tutti un lavoro migliore.
Invece ancora oggi, il barista di default chiede come prima cosa quando vuole aprire un bar il finanziamento è il denaro che avrà a disposizione, non il tipo di caffè. Non capisce che quei soldi li pagherà tre volte perché la qualità nella busta non rispecchia realmente ciò che viene proposto. È un sistema decisamente contorto. Mi piacerebbe fare una battaglia a livello qualitativo sullo stesso campo dei colossi, che ovviamente hanno una potenza differente e questo va bene perché rientra nelle regole del mercato. Dando però la possibilità in primis al barista di valutare la qualità e poi scegliere in maniera consapevole qual è la soluzione più adatta al suo pubblico di riferimento.
Il mio sogno poi resta quello di fare formazione non solo ai baristi, ma anche al consumatore finale. Si chiacchiera nei bar, con delle degustazioni easy, in un percorso per alzare la qualità: se diventa il cliente il primo critico oggettivo del barista, così si lavora per migliorare il livello e i prezzi.”