Proponiamo forse l’articolo più interessante tra quelli usciti sulla scoparsa di Michele Ferrero. Lo firma Aldo Cazzullo sul Corriere della sera.
di Aldo Cazzullo
Ha costruito la più grande multinazionale dolciaria al mondo dopo la Nestlé parlando piemontese, è diventato l’uomo più ricco d’Italia senza mai dare un’intervista a un giornale. Sue fotografie quasi non esistono: per una vita i quotidiani hanno continuato a pubblicare una sua immagine giovanile, quando lui ormai aveva settant’anni.
Diffidava dei manager, che cambiava spesso. Ossessionato dal prodotto, sceglieva di persona i dipendenti delle uniche categorie che lo interessavano: chimici e venditori.
Non guardava neppure il curriculum. Nascosto dietro un vetro opaco, gli bastava uno sguardo per dare un giudizio, ovviamente in dialetto. Per indicare una persona di buon comando ma poco creativa, diceva: «Chiel lì è mac bun a fé le comisiun», quello è capace solo di fare le commissioni, di eseguire il compito che gli è stato affidato.
Quando trovava una persona estrosa ma non del tutto affidabile, lo definiva «’n artista»; «chiel lì bat i querc», quello lì batte i coperchi, indicava invece che la sregolatezza prevaleva sul genio.
Ragioniere, rifiutava le lauree honoris causa, rispondendo che «basta il buon senso». In privato era anche più severo: «Mi raccomando, pochi laureati»; «pì a studiu, pì ven stupid», più studiano più diventano stupidi.
Leggendaria la sua capacità di lavoro: il giorno preferito per le riunioni è sempre stato la domenica.
Un’altra frase ricorrente era «vag ’n chimica», vado nei laboratori, dove faceva notte in camice bianco con i collaboratori più stretti ad assaggiare cioccolato e a provare decine di varianti. Seguiva di persona ogni cambiamento nella formula della Nutella, più riservata del Sacro Graal, e la ricerca dei nuovi prodotti, dai Rocher al Grand Soleil.
«Ricordatevi: ca piasa a madama Valeria», che piaccia alla signora Valeria, simbolo della casalinga media. Alla fine affidava ai suoi uomini un pacchettino con le diverse varianti: «Ca lu fasa tasté a sua fumna», lo faccia assaggiare a sua moglie; il verdetto della signora sarebbe stato decisivo.
Lui aveva sposato la sua segretaria, Maria Franca. Da quando era stato colpito da un male agli occhi, che negli ultimi anni l’aveva reso quasi cieco, appariva in pubblico sempre sottobraccio alla moglie.
Molto amato dai dipendenti e in genere dagli albesi, amava distribuire le gratifiche di persona, talora infilate nel taschino. Di politica non parlava mai. Una volta lo sentirono dire: «Sono socialista, ma il mio socialismo lo faccio io».
Costruì un welfare aziendale che si occupava di tutto, dalla sanità al dopolavoro: l’inno delle gite aziendali dei pensionati – «nui suma ansian, ansian d’la Ferero» -, da cantare sulla musica di «Marina», a un certo punto dice: «Dima grasie a monsu Michele», ringraziamo il signor Michele.
Quello che per i sindacati era paternalismo, per lui era il modo di evitare i conflitti. Se le fabbriche delle grandi città assumevano agricoltori cattolici e ne facevano operai comunisti, lui mandava a prendere i contadini dell’Alta Langa con i pullman che li portavano in fabbrica e li riportavano al podere la sera; il lavoro nei campi d’estate e nella fabbrica di cioccolato d’inverno ha evitato lo spopolamento delle colline, e ha reso ricca la terra della Malora fenogliana.
Spaventato dal fisco e dai sequestri di persona, portò la famiglia prima a Bruxelles, dove fu processato e alla fine assolto per esportazione di capitali, poi a Montecarlo. Negli ultimi tempi si divideva tra la casa di Cap Ferrat, in Costa Azzurra, e quella di Altavilla, la collina che sovrasta Alba.
I fondatori dell’azienda erano Pietro, suo padre, che si occupava della pasticceria, e Giovanni, suo zio, che seguiva i mercati. Lui ha chiamato i figli Pietro, affidandogli la produzione, e Giovanni, affidandogli le vendite. Li amava teneramente, al punto da battezzare la barca di famiglia «Papos», come il nomignolo con cui lo chiamavano da bambini; ma li sottoponeva a prove iniziatiche.
La domenica portava il primogenito Pietro nella fabbrica in riva al Tanaro, gli faceva chiudere gli occhi, e spariva: il piccolo doveva ritrovare l’uscita da solo, fidando sul senso di orientamento e sull’olfatto (il quartiere e talora l’intera città, a seconda del vento, profuma di cioccolato). Quando nel ’94 il Tanaro allagò la fabbrica, tutta la famiglia mise gli stivaloni e cominciò a spalare, sotto lo sguardo di Berlusconi atterrato in elicottero.
Del Cavaliere fu generoso inserzionista e amico; lo seguì nella battaglia per la Sme; non nella discesa in campo. Evitò sempre la Borsa come la peste. Investì in Mediobanca. Religiosissimo, in ognuno dei venti stabilimenti sparsi nel mondo ha fatto mettere all’ingresso una colonna con la Madonna di Lourdes, dove organizzava pellegrinaggi.
L’ultima volta che l’hanno visto in pubblico è stato nella Cattedrale di Alba, per il funerale di Pietro, morto d’infarto in Sudafrica nell’aprile 2011 mentre andava in bicicletta. Ai vecchi collaboratori continuava a ripetere: «Che disgrassia», che disgrazia. Nelle cerimonie il suo discorso consisteva in due parole: «Tanti auguri». Ma nel Natale 2013 sorprese tutti e raccontò a braccio la storia dei suoi esordi: «La prima volta che entrai in una panetteria-pasticceria per vendere la crema alle nocciole che faceva mio padre, il negoziante mi chiese brusco: “Cosa vuole?”. Non ebbi il coraggio di offrirgli il prodotto. Comprai due biove di pane e uscii. Andò così in altri due negozi. Nel quarto lasciai la merce in conto vendita. Tornai il giorno dopo: l’avevano venduta tutta». Poi chiuse con una sorta di testamento: «Possiamo essere orgogliosi della nostra storia. Abbiamo un debito con questa terra. La fabbrica resterà qui».