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martedì 05 Novembre 2024
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Parla il nutrizionista: la caffeina cambia effetto a seconda del dna

È uno stimolante del sistema nervoso. Ma quanto ci dia energia, ci tolga il sonno, ci possa far salire la pressione dipende dal nostro personale metabolismo. Determinato dalla genetica e dalle abitudini personali. Ecco come regolarsi

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MILANO – Come agisce il caffè sull’organismo di ciascuno di noi non è un caso, ma è legato al dna individuale che porta scritto al suo interno le possibili reazioni all’assorbimento di caffeina: funziona con qualsiasi altro alimento e così anche con la tazzina tanto amata nel mondo. A confermarlo è la scienza (per esser precisi, la nutrigenetica) e ha parlato nel dettaglio di questo argomento Francesco Visioli, nutrizionista e farmacologo nell’articolo di Giulia Masoero Regis su repubblica.it.

“Il caffè è un esempio perfetto di nutrigenetica, cioè di quella scienza che spiega perché ognuno di noi reagisce diversamente ai cibi”

A parlare su Repubblica è Francesco Visioli, farmacologo e nutrizionista che studia i composti attivi degli alimenti all’Università di Padova, e che del caffè analizza in particolare la caffeina, la sostanza più attiva, anzi psicoattiva, contenuta nell’espresso.

Essendo uno stimolante del sistema nervoso, è in grado di incrementare l’attenzione, la concentrazione e la lucidità, riducendo la sonnolenza, ma il suo effetto non è uguale per tutti. E, infatti, c’è chi il caffè non lo può bere dopo cena altrimenti non dorme e chi, invece, nemmeno se ne accorge. Soprattutto se è un fumatore. Certo, in parte è colpa della concentrazione di caffeina nella bevanda: una tazzina di moka o di espresso ne contiene dai 60 agli 80 milligrammi, mentre un americano può andare anche oltre i 100 mg.

Ovviamente maggiore è la quantità, maggiore può essere l’effetto su veglia e produttività. Ma a fare la differenza è soprattutto il corredo genetico di ognuno di noi

Continua l’analisi su Repubblica: Sul piano della reazione alla caffeina, esistono due categorie di persone: i metabolizzatori lenti e quelli veloci. “Gli effetti stimolanti di un caffè insorgono circa 30-45 minuti dopo la sua assunzione e permangono per qualche ora, in quanto l’emivita della caffeina, cioè il tempo in cui l’organismo impiega a metabolizzarla, è in media di tre-quattro ore”, spiega Raffaella Cancello, specialista in scienza dell’alimentazione dell’Irccs Istituto Auxologico Italiano di Milano: “Tuttavia la reazione è variabile: se sono un metabolizzatore veloce dopo un’ora e mezza potrei non sentirne più l’effetto; se sono lento, un caffè mi può mantenere attivo anche per cinque-sei ore”.

La differenza è determinata dalle abitudini personali e anche da varianti genetiche, che rendono l’enzima che metabolizza la caffeina nel fegato più o meno rapido nello svolgere il suo lavoro. Un enzima, tra l’altro, meno attivo fino ai 18 anni circa, motivo per cui si sconsiglia di far assumere caffeina ai minorenni, considerando che si trova anche in alcune bevande gasate e negli energy drink.

La nutrigenetica spiega: la velocità a metabolizzare il caffè, aumenta addirittura del 30-50% in chi ha il vizio della sigaretta

Secondo uno studio pubblicato sull’International Journal of Epidemiology nel 2017 – che ha analizzato il profilo genetico di oltre 250 mila persone e le loro abitudini – chi ha una particolare variante genetica, che predispone a fumare di più, tende anche a bere un maggior numero di espressi.

I ricercatori ritengono che ciò possa accadere proprio perché la nicotina fa metabolizzare più rapidamente la caffeina, incentivando le persone ad assumerne maggiori quantità per ottenerne i benefici.

“Inutile ricordare che il fumo fa male e che, perciò, gli effetti positivi dell’espresso in questo caso vengono surclassati da quelli negativi della sigarette”, sottolinea Cancello. La stretta correlazione caffè-fumo è anche il motivo per il quale a inizio anni Novanta la caffeina veniva classificata come una sostanza probabilmente cancerogena: gli studi non tenevano conto che le pause caffè di molti soggetti corrispondevano anche a pause sigaretta.

Oggi, infatti, sappiamo bene che questa bevanda non ha alcun effetto negativo sulla salute, se assunta con moderazione. Anzi, nonostante sia responsabile di un leggero aumento della pressione sanguigna (reversibile, fisiologico e tipico soprattutto in bevitori non abituali), sembra essere protettiva nei confronti di alcune malattie croniche, comprese quelle cardiovascolari. E l’effetto positivo del caffè è valido sia per i metabolizzatori lenti sia per quelli rapidi.

“La quantità massima raccomandata di caffeina è di circa 400 mg al giorno, ma gli ipertesi dovrebbero assumerne anche meno o, comunque, consultarsi con il medico per definire le quantità più adatte a loro”, consiglia l’esperta.

Ci sono, in effetti, medicinali, come quelli assunti in cronico per patologie cardiovascolari oppure prescritti per asma o depressione, che possono interagire con la caffeina. Sotto la lente d’ingrandimento degli scienziati c’è anche la pillola contraccettiva: “Può inibire l’enzima che scompone la caffeina, il quale tende a rimanere efficace più a lungo nelle donne che usano contraccettivi orali”, sottolinea Cancello, “ma, proprio in base alla variabilità individuale, resta ancora da capire se il consumo di caffè vada sfavorito o meno in chi assume la pillola”.

Oltre alla velocità con cui si smaltisce il caffè (e il suo effetto), a variare nelle persone è, poi, la sensibilità alla caffeina, cioè alla sua capacità di stimolarci in termini qualitativi, più che quantitativi. In questo caso c’entrano non la metabolizzazione ma le variazioni genetiche del recettore dell’adenosina, “un neurotrasmettitore il cui compito, tra gli altri, è renderci stanchi -, spiega Visioli – Quando l’adenosina aumenta nell’organismo ci viene sonno, ma per agire deve legarsi al suo recettore e, se nel frattempo beviamo caffè, la caffeina si inserisce in questo recettore al suo posto, mettendole il bastone fra le ruote”.

Questi effetti sarebbero più evidenti in chi consuma caffeina solo saltuariamente o in chi ne sospende l’assunzione per qualche tempo. Ci sono, però, persone in cui questo alcaloide non riesce a legarsi in modo efficace al recettore dell’adenosina e sono di fatto “insensibili” alla sua azione. Sono soprattutto i portatori di queste varianti a sostenere che bere un caffè prima di andare a dormire concilia loro il sonno.

Se non c’è si sente
Secondo il giornalista americano Michael Pollan, circa l’80% della popolazione mondiale è dipendente da caffeina. Una sostanza che, sostiene Pollan, ha contribuito a creare un nuovo tipo di lavoratore a partire dagli anni Quaranta del 900, quando gli imprenditori americani introdussero la pausa caffè mattutina e pomeridiana per ottimizzare la produttività dei loro operai anche grazie al caffè.

Per l’Italia, non esistono dati specifici sulla dipendenza da caffeina. “Si sa che può dare dipendenza”, conviene Leonardo Mendolicchio, psichiatra psicoanalista dell’Ospedale Auxologico Piancavallo: “Agendo sul sistema nervoso, ci fa sentire più attivi, concentrati e di umore migliore. Perciò, quando manca, si sente. Se, interrompendo bruscamente il consumo, percepiamo nel giro di 24 ore sintomi come mal di testa, affaticamento, difetti della concentrazione e disturbi del sonno, significa che avevamo sviluppato una dipendenza”. Che non è dose correlata, ma soggettiva.

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