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TENDENZE – Nuova moda in Oriente, investire in tè

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MILANO – C’è chi investe in vino, e si sa. C’è anche chi investe in birra, e va bene. Ma ci volevano proprio i cinesi per cominciare a investire anche in tè. È l’ultima mania d’estremo oriente: accaparrarsi a ogni costo foglie pregiate di qualità rarissima.

Uno dei tè più apprezzati dagli estimatori è una varietà di Pu Erh invecchiata di almeno un secolo. Poco più di 300 grammi, raccolti agli inizi del ‘900 e lasciati essiccare sino a oggi, costano sino a 25mila dollari. Un panetto di tè chiamato An Xi Tie Guan Yin è stato venduto all’esorbitante prezzo di 5mila dollari al chilo.

E l’imprenditore An Yanshi ha avviato, nella provincia di Sichuan nella Cina sud-orientale, una piantagione molto particolare. Avendo acquistato ben 11 tonnellate di escrementi di panda, ha fertilizzato un intero campo di tè che adesso vende (o almeno, prova a vendere) a circa 50mila euro al chilo.

È un prezzo record, che gli è valso il guinnes dei primati. Ma come si giustifica una cifra tale? Secondo Yanshi, “i panda hanno un sistema digestivo inefficiente e assorbono solo il 30% di quello che mangiano. Significa che i loro escrementi sono ricchi di fibre e nutrienti. E il bamboo contiene sostanze che prevengono il cancro”.

Forse le affermazioni di Yanshi non vanno proprio prese alla lettera, soprattutto se si considera che l’imprenditore ama andare in giro… vestito da panda (furry style?). Resta il fatto che in Cina, negli ultimi anni, le qualità di tè più pregiate hanno visto il loro valore aumentare anche del 1.000%.

Il Dahongpao, un’oscura varietà prodotta lungo le coste della provincia del Fujian, costava dai 200 ai 400 yuan al chilogrammo (circa 25-50 euro) nel 2009. Nel 2010, il prezzo era più che decuplicato a quota 4000 yuan (500 euro). Le varietà rare si sono rivelate quindi un ottimo investimento sia per i collezionisti locali, sia per le 60mila sale da tè sparse in tutto il paese.

E anche le società occidentali si stanno interessando alle possibilità di business in oriente: la catena di caffè americani Starbucks, che ha aperto numerose filiali in Cina negli ultimi anni, ha iniziato a vendere anche delle varietà di tè locali. E la multinazionale Typhoo Tea sta ampliando la propria gamma di prodotti dai brand inglesi a quelli orientali.

Peccato che per gli occidentali sia più difficile investire e trarre profitto dai tè rari. Le uniche alternative consistono nell’acquisto di azioni di società del settore, sperando di cavalcare la crescita in modo indiretto. Il problema è che i prezzi del tè dipendono dall’andamento dei mercati internazionali.

Tra i principali produttori vi sono l’India, la Cina e diversi Paesi africani. Nella prima metà del 2013, il valore del tè è andato diminuendo, soprattutto a causa dell’instabilità politica in molte regioni dell’Africa. E le società del settore ne hanno risentito: la McLeod Russel, uno dei principali produttori di te al mondo con coltivazioni in Assam, Vietnam, Uganda, Ruanda e Bengal, ha perso il 14% del proprio valore sulla borsa indiana nel giro dell’ultimo anno.

La Goodricke, altro colosso internazionale, ha perso il 15,7%. È andata meglio, ma non benissimo, alla Jayshree Tea, che ha guadagnato solo l’8,7% in 12 mesi.

Fonte: wired

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